11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 26 luglio 2008

198


A
ll’interno di un carcere, in qualsiasi parte del mondo esso potesse sorgere, da sempre si creavano sottili equilibri di potere non diversi da quelli di una normale società, comunità o città umana, nonostante l’idea stessa di detenzione avrebbe dovuto prevedere tutti i condannati posti ad uno stesso livello, ad uno stesso stato, senza distinzioni, senza privilegi di sorta, addirittura privati del proprio nome in favore di un semplice numero, quasi non fossero più degni di possedere neanche quello.
Normalmente più estese si ritrovavano ad essere le prigioni, maggiori e più complessi erano questi equilibri, così come elevate risultavano per un nuovo arrivato, per l’ultimo principiante lì gettato, le possibilità di turbarli, anche senza alcun interesse in tal senso, anche senza volontà di creare danno o disturbo nei riguardi di alcuno. Nelle più consuete sedi di detenzione, diverse da quel luogo segreto, simili giochi di potere spesso superavano il confine stabilito fra carceriere e carcerato, vedendo anche i primi, secondini o guardie che essi potessero essere, coinvolti nei dissidi dei secondi, non solamente in maniera passiva ma sovente in modalità assolutamente attiva: schierarsi a favore dell’una o dell’altra fazione, appoggiare uno o l’altro capo riconosciuto, erano scelte che sempre meno persone, coinvolte nella gestione di una prigione, decidevano di non compiere, in una disparità fra benefici e svantaggi assolutamente imparagonabile nelle due possibilità alternative. Anche laddove, infatti, una guardia avesse voluto evitare di partecipare a qualsivoglia attività esterna al proprio ruolo, avesse voluto evitare di piegarsi ai desideri, ai capricci, alle volontà di un capofila, il pericolo conseguente a tale assenza di scelta sarebbe stato rappresentato maggiormente dai propri colleghi, dai propri compagni di lavoro altresì schierati, ancor prima che dai detenuti stessi. Gli esponenti principali dei vari movimenti sociali all’interno del carcere si ritrovavano ad ergersi a tale ruolo in virtù della propria malvagità, della propria forza o, più comunemente, del proprio carisma: per ottenere fama e gloria all’interno di un simile ambiente, in effetti, non risultava essere la mera potenza fisica il fattore distintivo, l’ago della bilancia che avrebbe permesso di trovare il favore dei propri compagni, quanto il proprio carattere, quella forza d’animo in grado di imporre la propria figura, la propria parola, il proprio volere sopra chiunque. Per questo non raro era ritrovare un uomo anziano, senza più il vigore giovanile posseduto in un tempo lontano, come referente per gruppi molto vasti di detenuti, di gente che avrebbe potuto tranquillamente squartarlo senza un istante di esitazione, anche e soprattutto dove già macchiatisi di altri assassini, ma che, al contrario, a lui offrivano ascolto, attenzione e fiducia. E, sempre per questa ragione comunque lontana dall’essere una regola universale per quanto estremamente diffusa ed accettata, spesso anche le donne erano in grado di assumere il potere all’interno di simili ambienti, specialmente quando e dove esse avessero dimostrato di saper giocare le proprie arti di persuasione, psicologiche ancor prima che fisiche, con giusta e sapiente dose di abilità, per imporre il proprio dominio su ogni uomo attorno a sé.
Nel caso specifico della prigione nascosta all’interno della Terra di Nessuno, dove Midda si era volontariamente spinta al di là di tutto ciò che chiunque altro avrebbe potuto credere, quello sconfinato cratere privo di ogni controllo doveva aver sicuramente generato diversi generi di equilibri, estremamente più articolati di quanto sarebbero potuti essere in qualunque altro luogo. In tale contesto, infatti, non solo i detenuti abitavano quell’area desolata ma, addirittura, i loro figli e nipoti, discendenti della generazione attuale o di generazioni passate, dimenticate nel tempo: privi di qualsiasi controllo da parte del resto del mondo, nonostante l’avversione dell’ambiente ad essi circostante e nonostante la prigionia entro quei limiti, gli uomini e le donne lì rinchiusi avevano infatti da sempre proseguito il proprio ciclo vitale, nella vita, nella morte e nella procreazione, in quella personale ricerca di immortalità che ogni uomo o donna poteva compiere attraverso i propri figli. Davanti agli occhi della mercenaria, quindi, non dovevano essere offerti unicamente altri condannati quanto altresì gli abitanti reali di quella terra, i soli che, in effetti, avrebbero potuto rivendicare dei diritti su quel vulcano, ammesso che mai vi potesse essere ragione per voler possedere un ambiente simile.

« Chi sei? »

A porre simile domanda verso la mercenaria si propose un uomo, che ella giudicò più adatto al ruolo di portavoce che di capo: con pelle bianca, chiara ed immacolata simile al latte, ma con fisico alto e possente, egli mostrava con fierezza un corpo interamente tatuato con lunghe strisce nere conformate per apparire simili a quelle di una tigre, quasi di tale animale volesse risultare personificazione, incarnazione umana. Con lunghi capelli di color biondo chiarissimo, raccolti sopra la nuca in grosse trecce tonde, e due occhi rossi non diversi da quelli di un coniglio, la di lui natura di albino risultava assolutamente evidente ed inequivocabile, proponendolo invero non come il solo presente in tale stato nel gruppo lì radunatosi.

« Che importanza può avere il mio nome in questo luogo? » domandò Midda, osservando con fierezza gli astanti.

Numerosi erano gli albini posti di fronte a lei, ed in una tale predominanza tutt’altro che normale ella non poté fare a meno di ipotizzare come quella caratteristica fisica fosse in realtà conseguenza di quel luogo, del veleno che in quel terreno, in quell’aria era presente, tale da modificare forse non tanto l’organismo di chi lì veniva rinchiuso dal mondo esterno ma quello di chi lì nasceva già prigioniero, senza colpa: ammesso ma non concesso che il dio Gorl fosse reale, forse proprio per il di lui volere in quel carcere i nuovi nati perdevano ogni colore di pelle, di capelli, di occhi, assumendo quel pallore mortale eppure anche simbolo di purezza, a rappresentarne lo stato di condanna immeritata in cui egli o ella riversava.

« Tutti hanno un nome. » replicò l’altro « Qual è il tuo? »

Il portavoce, l’uomo tigrato, mosse appena un passo verso di lei, con marroni sandali ai piedi e sdruciti pantaloni di simile colore a coprirgli le gambe, unico indumento da egli indossato. Egli voleva forse proporsi forse come più minaccioso, come più aggressivo di fronte al tono tutt’altro che umile della donna nuova arrivata, mostrando nelle sue mani una spada ed un coltello, neri come la pietra lavica da cui erano stati estratti: non in metallo simili armi di morte erano state forgiate, ma dall’unica realtà lì presente erano state scolpite, forse più fragili, meno efficaci di una lama comune, ma assolutamente letali in quel contesto dove nessun altro genere di arma sarebbe mai potuta essere, avrebbe mai potuto giungere. Privati di ogni utensile, di ogni comodità, di ogni strumento di difesa, i detenuti dovevano con il tempo, con le generazioni, aver imparato a plasmare quella pietra porosa, lavorandola fino a ricavarne ogni oggetto utile o desiderato, come erano prova i molti monili che ella poteva individuare ai colli o alle braccia di altri uomini e donne lì presenti.

« Sono stata chiamata in molti modi… » rispose evasiva la donna, non volendo offrire il proprio reale appellativo per evitare il rischio di suscitare l’interesse di chi a lei noto ma da lei dimenticato fosse stato lì rinchiuso a trascorrere il resto della propria esistenza « Uno degli ultimi epiteti che mi hanno offerto è Figlia di Marr’Mahew. »
« Quali sono le tue intenzioni? » incalzò l’altro, avvicinandosi ancora verso di lei, con sguardo serio eppur curioso, nel volerla studiare, nel volerla comprendere.
« Non cerco rogne se è questo che desideri sapere. » affermò, con sincerità, la donna, incrociando le braccia al petto nell’ignorare i dolori conseguenti ad ogni suo movimento « Ma sono pronta ad offrirne se da me saranno cercate. »

Muovendosi lento, simile a predatore, equilibrato ed elegante, con gesti quasi alieni agli occhi di chi proveniva da una ambiente totalmente diverso da quello in cui egli era probabilmente nato e da sempre vissuto, l’interlocutore della mercenaria arrivò fino ad ella, dopo aver girato attorno al di lei corpo per poterne cogliere ogni dettaglio, carpirne ogni segreto, studiarne ogni possibile punto di forza e di debolezza.
La donna guerriero, impassibile, restò controllata e tranquilla, fredda nello sguardo e nella postura, ad attendere la fine di quell’esame, pronta alla battaglia se egli l’avesse cercata, se egli l’avesse desiderata, sperando però di non dover giungere ancora a tanto, non potendo confidare pienamente sul proprio corpo, sulle proprie capacità provate dalla lunga sofferenza sotto le pesanti catene della prigionia.

Fermandosi di fronte ad ella, a meno di un piede da lei, l’albino piegò il capo verso il basso per poter dirigere i propri occhi rossi verso quelli azzurro ghiaccio della donna, più bassa di lui, prima di pronunciare con poche semplici parole: « Benvenuta nel Cratere, Figlia di Marr’Mahew. »

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Vai, Midda ha superato l'esame.

Certo che se lì dentro c'è qualche sua vecchia conoscenza che in passato ha malmenato, dubito che vedendola non la riconosceranno.

Gli conviene di girare con un cappuccio in testa...

Sean MacMalcom ha detto...

Beh... l'ambiente è grande! :D
Non è detto che per forza debba reincontrare qualche vecchio avversario!