11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 31 dicembre 2008

356


I
l sole, quella mattina, sorse pigramente dal proprio giaciglio ad oriente, simile ad una giovane e meravigliosa amante nei propri movimenti delicati, nei propri gesti leggeri e sensuali, con i quali pose i propri sottili raggi a spingersi verso la costa volta a ponente, per accarezzare nella propria calda luce, le vaste pianure della provincia, le sue correnti d’acqua e i suoi campi coltivati. In quel placido tepore capace di dissolvere la leggera rugiada della notte, di negare il freddo accumulatosi al suolo nel trascorrere delle ore di oscurità, esso si spinse fino alle mura di Kirsnya, caratteristiche nella propria forma esagonale, inconfondibili nel bianco della pietra con cui esse, e i torrioni di guardia lì collegati, erano state costruite in tempi remoti, quand’ancora non Tranith ma Kofreya lì poneva il proprio dominio. Circondate da tale abbraccio di pietra, dal senso di protezione che ormai non si richiedeva più necessario nei nuovi abitanti di quei confini, non solo le torri di un tempo, svettanti verso il cielo, si ponevano ad accogliere quel gaudio ritorno, quel felice ed immancabile amico, ma anche bassi, colorati ed assolutamente caotici edifici, in totale contrapposizione con lo stile di un tempo, si contendevano tali attenzioni, mostrandosi nei propri smalti lucenti forse ancor più vicini al sole stesso per quanto architettonicamente rivolti al suolo ed alle naturali forme della terra.
In quei gesti, in quelle amorevoli cure degne della più fedele sposa verso il proprio unico marito o della più affezionata madre verso i propri figli, l’astro maggiore del cielo sopra a tutti i mortali non ritrovò contatto con la distesa di tende rosse a cui ormai si era abituato, non incespicò ancora fra i numerosi tiranti, non ebbe occasione di intrecciarsi alle loro stoffe sventolanti, non poté spingersi alla ricerca di volti addormentati dopo una notte trascorsa in serenità attraverso le sottili trame dei loro tessuti. Là dove, fino al precedente tramonto, era stato concessa al tocco dei suoi raggi una piana serena, traboccante di vita e di voglia di vivere, in quella nuova alba tutto appariva mutato, cancellato, dimenticato: al loro posto delle tende, dell’intero accampamento, infatti, esso si ritrovò a rendere il proprio saluto a uomini e donne pronti alla morte, eretti e fieri nelle proprie lucenti armature, reggendo pesanti scudi, indossando elmi e cotte di maglia, affilando le proprie armi. Non più occhi desiderosi solo di sonno, corpi a riposo, membra distese furono quelle che vide, che illuminò con il proprio tepore, ma menti già sveglie, lucide e coscienti senza alcuna necessità del proprio intervento: tutti, a quella prima luce, a quell’aurora, si stavano disponendo pronti alla partenza, improvvisa ed inattesa.

A metà del mese di Tynov, pochi giorni dopo il ritorno del loro comandante, l’armata della Confraternita del Tramonto agli ordini del capitano Graina smontò il campo eretto fuori le mura di Kirsnya, allo scopo di porsi finalmente in marcia in direzione della Terra di Nessuno. Il periodo prescelto sarebbe stato considerato infausto dalla maggior parte delle persone, nell’approssimarsi dell’inverno, nell’imminenza dell’ultima stagione dell’anno, tempo di morte della natura. Ma proprio in quel momento, quando alcun altro avrebbe avanzato una simile proposta, il loro ufficiale in comando valutò essere necessario avviarsi, sia nella consapevolezza che altri tre mesi avrebbero rappresentato un vantaggio eccessivo per la loro avversaria, una leggerezza che non si sarebbero potuti permettere nell’ignoranza assoluta in cui si ponevano essere nei suoi riguardi, sia nella speranza che, in simile decisione, essi avrebbero potuto ritrovare un certo fattore sorpresa, nel proporsi alle porte del dominio della regina Anmel nell’unica stagione in cui mai ci si sarebbe potuti attendere tanta imprudenza, in cui solo dei folli avrebbero pensato di incominciare una guerra tanto delicata come immancabilmente sarebbe stata quella a cui avrebbero offerto inizio e, speranzosamente, rapida fine.
La formazione di quell’armata si propose decisamente variegata nel proprio aspetto meramente estetico, nell’apparenza che avrebbe offerto agli occhi di un eventuale spettatore, come sarebbe potuto essere considerato il sole di quel primo mattino. Alcuna uniforme aveva mai ed avrebbe mai, infatti, reso omogenea quella massa umana, differenziandola in questo da qualsiasi esercito regolare, da qualsiasi altra formazione militare: contraddistinta semplicemente dal proprio tipico colore rosso, espressa in un qualsiasi genere di indumento, la Confraternita aveva infatti da sempre non solo garantito ma, addirittura, incentivato la libertà di espressione personale fra le proprie schiere, fra i propri uomini, per quanto ciò avrebbe potuto apparire in contrasto con qualsiasi ordine marziale, con qualsiasi esigenza di rendere i soldati semplici numeri, simulacri animati non eccessivamente diversi da zombie da porre in battaglia senza una reale identità. Lo scopo di simile scelta si proponeva, semplicemente e straordinariamente, essere quello di ritrovare il valore dell’intero gruppo nella forza del singolo e non quella del singolo nell’intero gruppo, comprendendo l’importanza di non annientare l’individualità di alcuno in favore di una semplice onda rossa, sempre uguale a se stessa.
Per questo le armi offerte in quel mattino rappresentative di in una varietà apparentemente illimitata, proponendo pugnali, spade, sciabole, spadoni, picche, scuri, mazze, medrath, archi, balestre e molto altro ancora, in qualsiasi foggia, in qualsiasi forma, frutto dell’artigianato di Qahr o di quello di Hyn, del talento dei fabbri figli del mare o di quello dei continentali: non dozzinale armamento fu quello pertanto presentato, ma un campione rappresentativo forse e addirittura di tutte le armi, di tutti gli strumenti di morte mai creati in quelle terre, a cercare di offrire il maggiore risalto alle potenzialità di ogni membro di quell’armata, a non limitare le possibilità di espressione nel compito di morte a loro assegnato. Allo stesso modo, immancabilmente e naturalmente, anche le armature, gli scudi e le protezioni proposte da ognuno di loro si concessero con una varietà priva di confini, vedendo guerrieri completamente rivestiti da lucente metallo, attraverso il quale neanche lo sguardo degli stessi sarebbe potuto essere intravisto, accanto a compagni del tutto privi del medesimo: i primi, in uno scontro, avrebbero fondato la propria strategia di combattimento sulla forza fisica, sulla potenza dei propri attacchi, dove altresì i secondi avrebbero preferito mantenersi libertà di movimento, garantirsi possibilità di azioni agili e rapide, proponendosi in questo non meno pericolosi rispetto agli altri.
Ovviamente, in tanta varietà di armi e di armature, in tanta differenza estetica, in simile assenza di omogeneità fra essi, quegli uomini non si proponevano uniti l’uno all’altro unicamente dal colore rosso che in un qualche punto li caratterizzava tutti: quello che avrebbe potuto offrirsi come una casacca piuttosto che come un ornamento sopra un elmo o, addirittura, come un semplice straccio legato attorno ad un braccio, si offriva essere simbolo di una comune formazione, di un’istruzione che accomunava indissolubilmente quei corpi e quelle menti, legandoli l’uno all’altro più di quanto non avrebbe fatto una semplice uniforme. Ognuno fra essi era stato cresciuto, addestrato, formato all’interno di una stessa organizzazione, che aveva immancabilmente imposto in uno stile di vita comune, un’educazione atta a permettere loro, pur nel mantenere una propria autodeterminazione, di riuscire anche e soprattutto ad essere membra di una sola squadra, di un’organizzazione compatta e coesa che nulla avrebbe avuto di che invidiare ad un qualsiasi esercito regolare di un qualsiasi regno del mondo conosciuto.
Naturale fu, pertanto, la marcia che cento cavalli e cento cavalieri iniziarono in quel mattino, nell’esecuzione di un unico e semplice ordine che non richiese da parte loro neanche la necessità di un’espressione verbale, quanto di un gesto, ritrovandoli schierati in modo ordinato, ad intervalli perfettamente regolari l’uno dall’altro, senza alcuna possibilità di errore, senza la minima incertezza, senza il più labile dubbio. In quanto membri della Confraternita del Tramonto, ancor prima che élite scelta al suo interno, con quello stesso controllo, con il medesimo ordine, essi avrebbero attraversato le terre della provincia settentrionale di Tranith, ponendosi al seguito del loro comandante, prestando fede ai suoi ordini, ai suoi comandi, per giungere nella sua guida, nella sua saggezza che non desideravano porre in discussione, alla gloria che quella missione avrebbe loro offerto.
Davanti a quei cento guerrieri, infatti, altre due figure umane ed altri due cavalli si concessero, le prime facendo sfoggio formale, sopra alle proprie vesti, di due fasce rosse legate una al braccio destro e l’altra al mancino, quale simbolo di aggregazione al gruppo che le seguiva, che le avrebbe seguite fino alla Terra di Nessuno ed ai suoi indescrivibili orrori.
Ed Heska, nell’osservare la distesa di uomini e donne alle proprie spalle, non poté che provare un legittimo e naturale senso di timore, di inadeguatezza, per il ruolo di responsabilità a cui, suo malgrado, aveva voluto ascendere nel porsi al fianco di Midda, della sorella di fato che la dea Marr’Mahew le aveva concesso trent’anni prima.

1 commento:

Sean MacMalcom ha detto...

Grazie! :)
Ricambio di cuore!