11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 31 gennaio 2009

387


A
seguito di quell’esperienza, in me maturò un nuovo desiderio, prima di allora sconosciuto.
Ripensandoci ora, a posteriori, non posso negare che, forse, ciò che accadde si sarebbe potuto considerare quale naturale sviluppo, maturazione, dei sentimenti già vissuti in passato, soprattutto nei confronti della Figlia di Marr’Mahew: comprendendo, infatti, che in lei non avrei mai potuto cercare o trovare un’amante, una compagna, laddove mi sarei sempre posto su un piano troppo diverso dal suo, in me rimase comunque inalterata la stima, il rispetto, l’ammirazione che fino a quel momento avevo riposto verso la sua immagine, nel confronto di quell’icona di forza, emotiva, mentale e spirituale ancor prima che fisica. Al di là del loro reciproco sacrificio d’amore, che pur non riuscivo ancora ad accettare, Be’Sihl e Midda, con le loro scelte, le loro vite, avevano comunque messo in luce i miei limiti, la mia incapacità a vivere realmente: per questo, per quanto simile idea potesse essere folle, in me sorse con forza l’esigenza di rimettere in gioco la mia esistenza, di esplorare nuove vie, prima ignote e neppure prese mai in considerazione.
Spinto più dalla buona volontà che da una reale consapevolezza di me stesso e di tale crescita interiore, mi presentai innanzi alla porta delle stanze della mercenaria nel giorno in cui mi giunse notizia della sua imminente ripartenza, della decisione presa da lei e dai suoi compagni di proseguire nella propria missione lontano da Kriarya, dall’unico ambiente che io mai avessi conosciuto, all’interno del quale ero nato ed ero sopravvissuto fino a quel giorno. Non desidero enfatizzare questi ricordi, questo viaggio mnemonico più del dovuto, ma credo di poter affermare, con un relativo grado di sicurezza, come ciò che compii allora, nel bussare sul legno della soglia di quelle camere di mia spontanea iniziativa, senza essere atteso o stato convocato, fu uno degli atti più coraggiosi e più folli in cui mai prima mi ero spinto nella mia intera esistenza. Dove, interpellato da lei stessa solo pochi giorni prima, non ero riuscito neppure ad offrir parola, ritrovandomi fisicamente e mentalmente bloccato nel confronto con quella figura tanto carismatica, in quel particolare frangente non si sarebbe potuto evitare di riconoscere tutto il mio impegno nel dimostrare qualcosa non solo a me stesso ma anche al mondo intero, dando prova del mio nuovo voto interiore, della mia volontà indiscutibilmente rivolta verso un nuovo genere di vita, di esistenza, di volontà. E, sebbene il terrore mi attanagliasse fin dal profondo delle viscere, dominandomi come il più spietato dei dittatori, non potei che sentirmi incredibilmente orgoglioso, assurdamente potente nel concedere mobilità alla mia mano, nel picchiare, seppur debolmente nel mancare ancora di una reale convinzione, contro quella superficie di legno. Al di là di ogni considerazione, oltre ad ogni giudizio, non avrei mai potuto avere modo di sapere come quell’esperienza si sarebbe conclusa, non avrei potuto prevedere la reazione di Midda, che avrebbe potuto spaziare liberamente fra l’innocente divertimento e la spietata rabbia: in qualsiasi modo, però, tutto quello fosse andato a finire, io non sarei comunque stato lo stesso di prima. Non sarei mai più stato in semplice balia del fato, dimostrando di avere volontà e forza per tentare di scegliere da solo in quali vie condurre la mia esistenza, attraverso quali percorsi ricercare piena consapevolezza di me e del mio fato.
Attesi. Gli istanti mi parvero ore, ogni battito del mio cuore sembrò scandire il passaggio di un’intera giornata, ogni fremito dei miei polsi sembrò segnare una continua morte e rinascita. Ero diviso fra il desiderio che ella mi aprisse, mi concedesse un frammento del proprio tempo, del proprio interesse, per quanto labile ed effimero, e l’assurdo pensiero che ella si potesse dimostrare assente, lontana in quel momento da ogni possibilità per me di raggiungerla: quell’ultima ipotesi, però, non avrebbe potuto trovare una reale concretizzazione, laddove in me pur era la certezza della sua presenza, la cognizione della sua posizione nella città e nella locanda, in quel momento.
Per questo, dopo pochi istanti o, forse, dopo innumerevoli eternità, ella finalmente si concesse, giungendo come prevedibile innanzi alla soglia e presentandosi al mio sguardo in tutta la sua florida beltade.

« Oh… » commentò, aggrottando la fronte nell’evidenza di un momento di sorpresa, fortunatamente non negativa, per quella mia comparsa inattesa, per quella mia visita inaspettata « Sei tu. » sorrise, poi, proponendosi con assoluta cordialità nei miei riguardi, rimarcando l’impressione precedentemente offertami « Scusa l’attesa ma stavo scrivendo alcune missive ed, in un primo istante, non ho fatto caso al tuo bussare… »

Solo una vestaglia apparve ricoprire il suo corpo, mentre ella si mosse scalza all’indietro, per concedermi facoltà di entrare all’interno dell’alloggio, di non restare in piedi nel corridoio, riconoscendomi, in ciò, un’ospitalità verso la quale non reputavo di possedere alcun diritto. E per quanto avessi già goduto dell’immagine del suo corpo nudo, naturali emozioni fisiche verso quelle forme procaci, colme di femminilità e di erotismo non poterono essermi negate, risultando in quel momento quale ulteriore svantaggio, inibizione nei suoi confronti. Dove pertanto enorme forza d’animo mi era occorsa per spingermi in quella situazione, innanzi a quella porta e bussare per richiedere l’occasione in quel momento offertami, il dubbio, il timore, non poté evitare di impossessarsi nuovamente e violentemente di me: posto realmente alla sua presenza, così, non riuscii ad evitare di esitare, umanamente.

« Entra dai. » mi incitò ella, sottolineando simile invito con un gesto della mano « Non mi piace restare a parlare sulla porta di una stanza… anche laddove la essa vede me quale sua occupante. »

Inspirai a fondo, cercando di impormi quiete, calma, controllo come fino a quel giorno non ero mai riuscito a fare: purtroppo ogni istante trascorso in quel punto, davanti a quella porta, parve porre in me solo nuova agitazione, solo ulteriore dubbio e se mi fossi concesso ancora un momento per tentare di raggiungere la pace interiore, il raziocinio, di certo sarei fuggito, negandomi forse l’unica occasione che ero riuscito a conquistare per trovare un nuovo senso alla mia esistenza. Riconoscendo in me una paura maggiore nel ritrarmi e nel proseguire nella mia vita da ignavo rispetto a quella rappresentata dall’ingresso in quella stanza, spinsi con prepotenza il mio corpo ad incedere, superando la soglia aperta innanzi a me, forse più rappresentazione metaforica che materiale in quel frangente.

« Grazie. » risposi, con voce appena udibile.
« A te. » replicò la donna, richiudendo la porta alle mie spalle per poi muoversi, con incedere felino e sensuale, verso lo scrittoio prima abbandonato e la sedia lì presente « Dove non credo di aver richiesto nulla a Be’Sihl e dove ci poniamo ancora ben lontani da orari di pranzo o cena, mi permetto di ipotizzare che questa visita sia a titolo personale… o erro? »

Come non sentirsi incredibilmente stupidi in un momento simile?
Ero stato accolto con serenità, con tranquillità, all’interno della stanza di una delle donne guerriero più famose del regno, di una mercenaria la cui nomea ormai sfiorava la leggenda, proponendosi vicina a quelle di eroi semidivini, raggiungendo una posizione per la quale avrei già dovuto sentirmi incredibilmente onorato, alla quale sicuramente pochi altri avevano avuto ragione di arrivare prima di me, soprattutto in un clima simile. Eppure, nonostante tutto ciò, continuavo a sentirmi estremamente legato, tremendamente inibito di fronte a lei, neanche si fosse proposta a me iraconda ed urlante, desiderosa del mio sangue e della mia vita.
No! Non potevo permettermi di continuare in quel modo, di sprecare il dono che gli dei, ammessa la loro esistenza, mi stavano ponendo di fronte, forse immeritato ma sicuramente presente. Dovevo riuscire a rivolgerle parola in maniera degna, ad esporle il mio desiderio, per quanto forse assurdo, forse irrealizzabile: se fossi uscito senza averlo fatto, avrei rimpianto quel giorno per il resto della mia esistenza.

« Desideravo… parlarti. » pronunciai, non senza evidente difficoltà.
« Dopo ciò che hai fatto per me e Be’Sihl un anno fa, restando a vegliare in attesa della mia ripresa, del mio recupero, sarebbe assolutamente fuori luogo rifiutarti questa possibilità… » commentò, offrendomi l’azzurro chiaro ed intenso dei propri occhi con assoluta attenzione « Ti ascolto. »
« Io… » esitai, tentennai, ed alla fine esplosi quasi senza fiato « Vorrei accompagnarti in una tua missione, servendoti quale scudiero… »

venerdì 30 gennaio 2009

386


I
n quel momento, forse stupidamente, l’affetto verso Be’Sihl prevalse sul mio egoismo, sul desiderio possessivo ed infantile che avevo vissuto nei confronti di Midda. In fondo, sebbene mi fossi illuso del contrario, ero pur sempre stato conscio che mai simile bramosia avrebbe potuto trovare compimento né sarebbe stata giusta o naturale: non sarei mai potuto essere io nel futuro di quella donna, di quel guerriero indomito ed indomabile, troppo distante dalla realtà che altresì io rappresentavo, troppo distante dall’uomo… dal ragazzo che io ero, un collezionista di sassi. Nonostante fossi privo di una particolare fede verso qualche dio o dea, non avendo mai ricevuto educazione in tal senso, pregai affinché i due riuscissero a concludere quel bacio non ancora iniziato, riuscendo a raggiungere finalmente, attraverso esso, l’amore tanto desiderato eppur quasi temuto da entrambi.
Fosse stato utile, in tal senso, sarei stato persino pronto ad uscire dalle tenebre nelle quali avevo trovato rifugio, incurante della loro possibile reazione, del loro disappunto, al solo scopo di spingere le due teste l’una contro l’altra, ponendo i due volti a contatto, le due coppie di labbra ad unirsi: nel vederli così, infatti, nel cogliere l’evidenza del loro sentimento, già noto ma troppo a lungo da me rinnegato, nel mio animo esplose un amore filiale verso entrambi, quasi fossero stati improvvisamente promossi dalla mia coscienza nel ruolo di genitori adottivi senza saperlo. Ancora nascosto, purtroppo, fui costretto però ad assistere ad un lento ed inesorabile allontanamento da parte di colui nel quale, in quel momento, erano state riposte le mie speranze, il quale con poche, semplici parole colme di dolcezza e malinconia, si limitò a rimarcare una realtà nota ed apparentemente immutabile.

« Fin dal primo giorno. »

Non capii. Ammetto senza vergogna i miei limiti e ribadisco che, innanzi a simile affermazione, non riuscii a comprendere il perché di quell’atto, di quel suo ritirarsi eppur, contemporaneamente, di quella sua completa ammissione.
Avevo forse udito male? Mi era sembrato di aver colto una frase, in risposta alla domanda della donna guerriero, assolutamente valida come dichiarazione d’amore, come espressione di un sentimento sincero, assoluto: perché quindi quell’allontanamento fisico da lei? Perché non completare l’unione tanto bramata fra loro con un caldo, appassionato bacio?
Senza accorgermene mi ritrovai a trattenere il fiato, illudendomi che, quanto pur evidente, fosse presto negato dai fatti, venisse presto corretto da una nuova azione a negazione di quella fuga, completando quel gesto d’amore, quell’unione quasi doverosa. Ma, dove nella mia limitatezza non mi fu concesso di comprendere il perché delle ragioni di Be’Sihl, Midda parve invece accettarle senza dubbi, senza esitazioni, sorridendo egualmente malinconica ma altrettanto decisa a non violare l’equilibrio esistente, a non cambiare la posizione dei pezzi tanto accuratamente disposti in gioco in quegli anni.

« Sono proprio una cattiva ragazza… » sussurrò a sua volta, quasi sarcastica verso di sé.

Impossibile, a quell’evoluzione, mi fu non solo comprendere quanto stesse succedendo ma, anche, restare ad ascoltare quel confronto, quel dialogo per un solo, ulteriore istante. Avevo già sentito troppo e ciò che mi era giunto, ciò di cui ero stato testimone, mi aveva lasciato con un’amarezza nell’animo priva di eguali. Non capivo e, sinceramente, non desideravo neppure cercare di comprendere le ragioni esistenti dietro a quel reciproco freno, a quella ritrosia che, dopo tanti anni di reciproca conoscenza e oltre quattro stagioni di distacco, ancora li arrestava. Per questo mi allontanai dal punto conquistato, con la stessa discrezione, la medesima leggerezza prima dimostrata, perdendomi nelle cucine e cercando distrazione nell’osservare le ciotole ed i piatti sporchi, ognuno di essi testimonianza di vite diverse, imprevedibili, incontrollabili: quegli avanzi, lasciati lì da uomini e donne di ogni età, di ogni estrazione sociale, di ogni professione, raccontavano un frammento della loro storia non diversamente da come i miei sassi offrivano memoria della mia vita, del mio passato e, forse, in parte anche del mio futuro.
Mi ritrovai così a filosofeggiare sull’esistenza e sul destino, sulla possibilità di libero arbitrio offerta teoricamente ad ogni persona e su, in contrasto a ciò, la capacità innata in tutti noi di rifiutare un simile privilegio, forse per colpa di troppi limiti stupidamente imposti dai nostri trascorsi. Ero deluso per quanto mi era stato offerto, per ciò di cui ero stato indesiderato spettatore, per la scelta compiuta da Midda e Be’Sihl. Nonostante tutto, però, non potevo negarmi di comprendere simili posizioni, tali timori: in fondo io avevo sempre agito nella mia vita con una prudenza, una viltà superiore alla loro, rifiutando di lottare per qualsiasi ragione, per me stesso e per ciò in cui avrei dovuto credere. Loro, per lo meno, al di là di quel loro sentimento non si erano mai tirati indietro innanzi alle proprie responsabilità, imponendosi, al contrario, quotidianamente su ogni destino avverso, su ogni tentativo offerto dal resto del mondo di sopraffarli, di negare loro la propria autodeterminazione.
Ma allora, dannazione… dove erano tanto bravi rispetto a me a difendere i propri diritti, la propria libertà, perché non accettare di amarsi? Perché negarsi quel sentimento tanto meraviglioso che pur io, non avendo mai avuto modo di conoscerlo realmente, non avendo una reale concezione a tal riguardo, non potevo evitare di ammirare?

« Proprio perché l’amo devo essere capace di lasciarla andare… »

La voce di Be’Sihl mi colse di sorpresa, al punto tale che sobbalzai violentemente lasciando ricadere rumorosamente a terra le stoviglie che reggevo in quel momento fra le mani: quelle in terracotta, inevitabilmente, andarono in frantumi ma, fortunatamente, una certa maggioranza risultò essere in legno, riservandosi così la possibilità di sopravvivere al mio attentato.
Non avevo sentito assolutamente l’uomo raggiungermi né, soprattutto, mi era sembrato di aver espresso ad alta voce i miei pensieri offrendogli, in tal modo, occasione di coglierli e rispondere a tono.

« Stavi domandandoti quello, no? » sorrise lui, dimostrandosi assolutamente sereno, tranquillo, nell’avvicinarsi a me e nel chinarsi poi per raccogliere i cocci rimasti a terra, vittime del mio stupore.
« Io… »

Cercai di rispondere, di giustificarmi, riuscendo però a fatica a formulare un pensiero di senso compiuto laddove allo sbigottimento rapido era subentrato il timore che egli potesse avermi visto, potesse aver colto la mia presenza anche prima, mentre era in compagnia di Midda e, di ciò, potesse essere giustamente irato. Io al suo posto mi sarei sicuramente sentito tradito nella fiducia prima riconosciuta: Be’Sihl, al contrario, dimostrando ancora di essere un uomo decisamente superiore a quello che mai io sarei potuto divenire, si concesse controllato e ben disposto come sempre, lasciando in quel momento solo me vittima di forti emozioni.

« Calmati… davvero. » suggerì lui, parlando con tono sommesso « Credevi davvero che non mi sarei accorto di una tua assenza dopo che, per quasi un anno, sei stato sempre presente e puntuale al mio fianco ad ogni nuova alba, amico mio? »

Amico: con tale termine era arrivato a definirmi? Davvero?!
Sul timore, inevitabilmente, prevalse così l’imbarazzo: non solo egli non mi aveva avvertito il mio gesto quale una diserzione, non solo egli non desiderava punirmi per quella mia assoluta mancanza di discrezione nei suoi riguardi, ma addirittura si poneva nei miei confronti con termini quali quelli adoperati, parole delle quali non mi riuscivo a reputare degno e che, al contrario, non potevano evitare di generare in me un senso di colpa privo d’eguali per quanto compiuto.

giovedì 29 gennaio 2009

385


F
u necessario il quarto ritorno della Figlia di Marr’Mahew alla locanda per concedermi l’occasione di fare ordine in me, nel mio cuore, nella mia mente e nel mio animo, come prima non mi era stato dato modo di compiere, maturando ancora un poco, crescendo.
Se un anno prima, in contrasto al suo modo di fare solitario, non si era presentata da sola alle porte della città del peccato, un anno dopo ella vi fece ritorno insieme addirittura a nuovi compagni di ventura: tre mercenari suoi pari che, nella volontà di una comune mecenate, erano stati uniti per l’adempimento di un incarico, una missione non meglio identificata, tenuta segreta al pubblico, ma evidentemente caratterizzata da un livello di pericolo fuori dal comune, da una complessità insolita, se non addirittura inumana, dove aveva richiesto addirittura il coinvolgimento di una simile squadra. Non ebbi esitazioni a riconoscere la donna guerriero, dove il tempo parve non essere trascorso per lei, le stagioni sembrarono non essersi alternate in quel periodo di distacco, lasciandola inalterata nella propria bellezza, nella propria forza, quasi fosse partita il giorno prima. Al di là di ogni altra considerazione, però, ciò più mi colpì in un simile frangente fu come ella diede prova di ricordarsi reciprocamente di me, di riconoscermi, associandomi naturalmente, ma incredibilmente dal mio umile punto di vista, alle figure di Be’Sihl e del guercio tranitha in quanto presente nella sua stanza al momento di quel lontano risveglio.

« Sei poi riuscito a riprenderti dall’emozione vissuta? » mi domandò, con tono dolce e divertito.

Tale questione, semplice, innocente, scherzosa, mi raggiunse del tutto inattesa ed inattendibile, cogliendomi nel momento in cui ero impegnato a svuotare due pesanti secchi d’acqua dentro la vasca in legno presente nelle sue stanze.
Come ad ogni suo precedente ritorno alla locanda, infatti, la prima, puntuale e rituale richiesta era stata quella di un bagno caldo, necessario a concedere al suo corpo pulizia dalla polvere accumulata nel lungo viaggio appena compiuto, utile a donare alle sue membra ristoro per l’umana stanchezza derivante da troppo tempo trascorso lontano da una città, in quel caso a cavallo, in altri a piedi. Dove, usualmente, si poneva proprio Be’Sihl in testa alla piccola processione predisposta al riempimento della tinozza, il fato aveva orchestrato quel giorno al fine di impedirgli l’assolvimento di tale compito, distraendolo all’ultimo momento per mezzo di una richiesta posta da un altro cliente: in ciò, senza colpa o merito, ero pertanto finito per essere a capo del gruppetto di garzoni trasportanti l’acqua calda al piano superiore.

« Invero, mia signora, da quel giorno la mia vita non è stata più la stessa… » risposi, cogliendo l’occasione a me proficua, nell’offrirle il migliore fra tutti i sorrisi che mai avrei potuto concederle « Non ho avuto più occasione di raggiungere requie, perché il cuore mi è stato strappato con violenza dal petto al momento della tua partenza, perché ogni speranza di senno ha abbandonato la mia mente nel timore di non poter godere più della tua presenza al mio fianco… »
« Sono folle per te, Midda Bontor… » proseguii, appoggiando a terra i secchi prima tenuti in mano, per essere libero di cercare la sua mano mancina e stringerla fra le mie, a condurla al mio petto « E se anche questo mio sentimento dovesse offrirsi a te quale blasfemo, alcun timore si porrebbe su di me per aver osato tanto. Uccidimi se lo desideri, strappami la vita dal corpo se ciò ti può concedere soddisfazione. Ma… »

Non ebbi modo di concludere la frase. Non ebbi occasione di terminare le parole che stavo pronunciando. Le sue calde e morbide labbra mi zittirono, mi impedirono di proseguire, imponendosi su di me con passione, con desiderio, quasi violenza: un bacio coinvolgente, come mai avevo ricevuto prima di quel giorno, al quale mi strinsi con forza, quasi aggrappandomi a lei, a quelle forme, come se esse potessero rappresentare l’unico appiglio in un mondo troppo caotico, troppo…
Ma come sono bravo… sto morendo e trovo la forza di mentire a me stesso?!
D’accordo… non è andata proprio così.
Anzi… non è andata assolutamente in questo modo.

« C-c-come?! » balbettai, avvampando in viso, sorpreso non tanto dalla domanda che mi presentò quanto, piuttosto, dal suo stesso essersi a me rivolta, laddove, nonostante ogni mia fantasia, ritenevo di essere comprensibilmente e praticamente trasparente innanzi al suo sguardo.
« Per Thyres… » sorrise, scuotendo il capo « Non desideravo ricominciare tutto da capo! »
« Io… io… » cercai di giustificarmi, ritrovandomi però privato di ogni pensiero, quasi nella mia mente si fossero imposti i deserti di Shar’Mohr.
« Non ti agitare… fai finta che non abbia chiesto nulla! » commentò ella, con comprensione.

Ebbene sì! Colei che per un anno intero avevo sognato, bramato, con insistenza tale da apparire simile a perversione, mi aveva rivolto attenzione, parola… ed io ero stato capace solo di balbettare.
Unicamente in virtù del rispetto, o forse del timore, verso la mercenaria che nei miei confronti aveva mostrato un minimale interesse, i miei compagni si trattennero nell’evidente desiderio di scoppiare a ridermi in faccia innanzi alla mia reazione: inevitabilmente dovevo aver risvegliato in loro il ricordo degli scherzi prima dimenticati, dell’aneddoto perso nella loro labile memoria, e ciò non avrebbe mancato di tormentarmi nei giorni successivi, peggiorata nell’enfatizzazione conseguente a quella nuova magra figura. Consapevole di ciò, completai rapidamente il mio lavoro e, rosso in viso, mi allontanai come un cane bastonato, silenzioso e dolorante. Non fu il mancato colloquio con Midda, però, ad aprirmi gli occhi, a permettermi la maturazione, la crescita interiore prima accennata, quanto piuttosto il dialogo fra ella e Be’Sihl avvenuto nel corso del mattino seguente, del quale mi ritrovai ad essere semplice spettatore, ascoltatore discreto.
Quando all’alba mossi i miei passi verso la sala principale della locanda, per prendere servizio come di consueto, vidi innanzi a me il mio benefattore e la sua ospite seduti ai due lati opposti del bancone, coinvolti in un’aura di serenità familiare per me prima di allora sconosciuta. Non vi fu malizia, inizialmente, nel mio gesto, nel mio giungere a loro: nulla avrei potuto sapere in merito a quella che, solo successivamente, compresi essere una loro abitudine, allo stesso modo in cui Midda mai avrebbe potuto essere a conoscenza di quella mia pratica, di quel mio costume maturato solo nel corso degli ultimi mesi nel levarmi sempre di buon ora per l’assolvimento dei miei compiti. Solo Be’Sihl avrebbe dovuto attendersi tanto il mio arrivo quanto il suo: sbagliandomi, in quel momento immaginai che, però, egli si fosse scordato di me, coinvolto umanamente nei propri sentimenti per la donna seduta innanzi a lui. E, in quella particolare situazione, per quanto non fosse mio desiderio spiarli non potei fare a meno di ascoltare il loro dialogo.
… ovviamente mento per l’ennesima volta…
Come avrebbe potuto non essere mio desiderio spiarli? Se una metà del mio cuore era affezionato a Be’Sihl come ad un padre, l’altra metà ancora bramava Midda quale amante ed alcuna occasione sarebbe potuta essere più propizia di quella per studiare tanto il mio nemico quanto il mio obiettivo.
Dove non ero stato da loro notato, pertanto, restai tranquillo, nascosto in ombra, per ascoltarli, curioso, indiscreto. I due, in quel particolare momento, si stavano proponendo particolarmente vicini, legati reciprocamente e magneticamente dai propri sguardi, entrambi evidentemente bramosi l’uno dell’altra, di potersi unire in amore, dando libero sfogo ai sentimenti che sembravano poter essere chiari all’intero Creato ad eccezion fatta di quella coppia di protagonisti.

« Stai forse cercando di sedurmi, Midda Bontor? » sussurrò egli, spingendosi ancora di più verso la donna, in replica evidentemente ad una precedente affermazione che non ebbi modo di cogliere, di ascoltare, probabilmente nel corso di uno dei loro classici confronti fra il serio ed il faceto.
E, con una semplicità disarmante, con una dolce sensualità naturale, ella rispose, aiutandolo ad abbreviare la distanza minimale esistente fra loro: « La vera domanda è un’altra… ci sto riuscendo, Be’Sihl Ahvn-Qa? »

mercoledì 28 gennaio 2009

384


D
opo la ripartenza di Midda da Kriarya, per un’assenza che sarebbe durata più di un anno come solo a posteriori fu evidente, i fatti occorsi nei giorni della sua convalescenza divennero praticamente di pubblico dominio, mischiandosi in maniera incontrollata alle innumerevoli polemiche che la videro protagonista all’interno delle mura della città del peccato.
Diverse furono le informazioni che si imposero alla mia attenzione, volente o nolente, attraverso un ascolto passivo delle voci circolanti in città più che in conseguenza di un vero e proprio interesse in tal senso: per quanto ovviamente variegate, laddove ognuna sembrava desiderare offrire una propria ipotesi di realtà al di là dell’univocità intrinseca in tale concetto, esse si proposero con una certa armonia nella prima metà dei fatti riportati, perdendosi altresì in un futile contrasto di opinioni sulla seconda. Praticamente a tutti risultò pertanto chiaro come la liberazione della ragazza rapita, Camne Marge, avesse richiesto alla mercenaria il confronto con un’armata della Confraternita del Tramonto, una potente organizzazione kofreyota di mercenari che fino a quei giorni non aveva mai agito in maniera tanto evidente al fine di espandere le proprie mira su Kriarya, obiettivo troppo anarchico, troppo incontrollato per poter essere da loro appetibile. Uno dei signori della città, violando regole non scritte, patti impliciti fra tutti i potenti dell’urbe, coinvolse, infatti e purtroppo, la Confraternita nelle sue questioni personali, ricorrendo ad essa per tentare di ricattare Midda attraverso il rapimento della sua protetta, nel desiderio di ottenere dalla donna guerriero una lealtà forzata. Secondo una certa maggioranza, di fronte a simile dilemma la mercenaria agì in assoluta malafede, coinvolgendo non solo il proprio mecenate ma anche tutti gli altri signori della capitale nell’organizzazione di un estemporaneo esercito da opporre alla Confraternita, per dichiarare guerra agli invasori: nel momento in cui, però, ottenne da questi ultimi una proposta di patteggiamento, con la liberazione dell’ostaggio in cambio alla sua rinuncia allo scontro, la donna guerriero rifiutò la prosecuzione della battaglia già incominciata, abbandonando il campo proprio nel momento altrimenti utile alla vittoria e lasciando, in conseguenza a tale indegna ritirata, i propri compagni ad un destino di morte certa, segnato quale solo sarebbe potuto essere dalla sua assenza strategica. Difficile fu, per me così come per molti altri, credere ad un atteggiamento del genere. Personalmente, per quel poco che mi era stato concesso di conoscere Midda Bontor, non riuscivo a collimare il profilo maturato nella mia mente a suo riguardo con un tale atteggiamento, con un simile comportamento: ciò nonostante, non potei né concedermi di indagare più a fondo, né tentare di offrirmi in sua difesa in contrasto alle opinioni a lei avverse offerte anche solo dai miei compagni, laddove proprio in quei giorni molti altri furono i problemi personali che dovetti affrontare.
Come accennato, anche i dettagli in merito al periodo di patimento della mercenaria ebbero modo di diffondersi in vie altrettanto caotiche e, con esse, gli altri giovani al servizio di Be’Sihl non faticarono a comprendere le ragioni della lunga assenza che aveva visto lo stesso locandiere e me quali protagonisti, collegandomi irrimediabilmente alla questione. In un’equazione che vide posti da un lato un gruppo di normalissimi ragazzi e dall’altra la notizia di una splendida donna nuda e sudata per tre giorni in un letto, la malizia, nel migliore dei casi, risultò essere praticamente inevitabile e nel momento in cui ai miei compagni fu dato di sapere che di quell’occasione concessami così generosamente dal fato non avevo approfittato in alcun modo, come altri non si sarebbero fatti scrupolo a fare al mio posto, la considerazione del sottoscritto ai loro occhi, già tutt’altro che positiva, precipitò senza freni in un baratro privo di salvezza.
In conseguenza della mia fedeltà a Be’Sihl ed alla fiducia in me riposta, pertanto, mi ritrovai nuovamente ad essere solo con i miei sassi ed i ricordi ad essi collegati, privato di quel minimo di socializzazione che pur prima mi era stata concessa. Ovviamente fu mia premura mantenere simile situazione quale problema personale, evitando che una tale sciocchezza potesse raggiungere l’attenzione del mio benefattore e, magari, stimolarne una reazione: dove la considerazione a me riservata dagli altri non si proponeva come positiva, invero il sentimento risultava essere assolutamente reciproco e, per certi versi, fui quasi grato agli eventi occorsi per avermi permesso finalmente di porre alla luce ciò che prima era stato celato solo dall’ipocrisia, liberandomi in ciò da un carico inutile ed antipatico.

Per un intero ciclo di stagioni restai così solo: immerso in un’atmosfera sempre affollata, sempre caotica e rumorosa, ma assolutamente solo. Nel passare delle settimane, dei mesi, inevitabilmente gli scherzi dei miei compagni vennero meno, scemarono come era giusto e naturale avvenisse, ma questo non mi spronò a cercare ulteriore contatto con essi al di fuori del semplice ed inevitabile rapporto di lavoro che sarebbe dovuto intercorrere fra noi. I miei turni, nella locanda, si fecero ancor più lunghi ed intensi di quanto non lo fossero stati in passato, vedendomi quasi eguagliare lo stesso Be’Sihl nell’essere sveglio prima dell’alba dopo essermi concesso solo un paio di ore di riposo, e dove egli avrebbe potuto avere evidenza di quel cambiamento non me ne fece mai parola, non cercò mai confronto in ciò.
Credo, al contrario, che al mio padrone non dispiacesse la mia presenza accanto a lui nel rassettare la locanda al mattino presto o nell’allontanare i clienti a notte inoltrata, non tanto per l’aiuto offertogli quanto per il legame di complicità che ci aveva legato tempo prima nella difesa, nella tutela di Midda e per i ricordi che simile comune passato non poteva evitare di suscitare in entrambi. Dopo la fatidica e sfortunata battaglia contro la Confraternita, del guercio tranitha non ci era stata più offerta informazione, notizia: della piccola compagnia creata attorno alla mercenaria, pertanto, solo noi due eravamo rimasti a ricordare quei giorni e, ovviamente, ad attendere il ritorno della donna stessa, ovunque ella fosse finita nel mondo. Ovviamente cronache in merito alle gesta di Midda Bontor non mancarono in quel periodo: fra le molte, assunse anche il nome di Figlia di Marr’Mahew, risultando protagonista di epici scontri, di incredibili imprese, sempre a noi tanto vicina eppur incredibilmente lontano. Ciò che, in esse, non mi riuscì però a risultare chiaro fu il perché ella tardasse tanto a fare ritorno a Kriarya, quasi non volesse comprendere il patimento che, con la sua assenza, inevitabilmente stava provocando in Be’Sihl, suo amico. Egli mai parlò di lei, forse per scaramanzia, forse per evitare di mettere a nudo i propri pensieri, le proprie emozioni: ma, per quanto non mancarono al suo fianco amanti occasionali, compagne di una notte o di una settimana intera, nel suo sguardo, ai suoi occhi, solo l’immagine della donna guerriero risultò sempre chiaramente presente.
Personalmente mi ritrovai decisamente diviso fra emozioni e raziocinio, fra ciò che sapevo essere giusto e ciò che, invece, avrei voluto fosse giusto per me stesso. La fedeltà e l’affetto che mi legavano a Be’Sihl mi facevano giustamente preoccupare per lui, condividendo la sua pena per l’assenza di Midda: al contempo, nel riportare il pensiero alla donna guerriero, a tutto ciò che ella rappresentava ed, ancor più, che ella era, non riuscivo ad evitare di sentirmi infatuato da lei, in un rapporto che percepivo come impossibile, come sbagliato, ma che umanamente non poteva evitare di irretirmi. In questo contrasto interiore, vissi quel lungo anno diviso in comportamenti che non posso, ora come ora, che giudicare assurdi, quasi infantili: dove, infatti, da un lato non mancavo di giudicare negativamente il mio benefattore per le sue compagne di letto, quasi egli stesse tradendo Midda in ciò, forse provando nuovamente emozioni dimenticate dal giorno in cui sorpresi mia madre stretta fra le braccia di uno sconosciuto, dall’altro lato non mancai io stesso di cercare il calore della presenza femminile, fin troppo facile da trovare nella città del peccato con pochi soldi, selezionando coloro che, in un modo o nell’altro, si ponevano quali feticci della donna guerriero, lasciandomi immaginare di giacere insieme a lei attraverso loro. Ognuna delle mie amanti occasionali, naturalmente, meritò l’aggiunta di una pietra alla mia collezione, ma tutte loro, per quanto meritevoli di considerazione superiore rispetto a quella che le offrii, furono rappresentate da sassi che io stesso non riuscivo, paradossalmente, a non considerare minori, soprattutto nel confronto con quelli che, invece, mi ricordavano Midda. E più il tempo scorreva, più in me diveniva forte l’egoistica illusione che ella sarebbe potuta essere mia, che io avrei potuto conquistarla, dove Be’Sihl avendo evidentemente avuto fin troppe occasioni in tal senso le aveva puntualmente sprecate ed, in questo, non ne era più degno, non era più meritevole di lei.
Amico e nemico, rivale e complice: in tal modo percepii pertanto la figura del mio padrone, legandomi in ciò sempre più a lui come, realmente, ad un padre. Sì… perché dove le emozioni che provavo nei suoi riguardi si ponevano del tutto simili a quelle vissute nei confronti di mia madre, solo in tal modo sarebbe potuto essere descritto il vincolo che, inconsciamente, mi aveva stretto a lui.

martedì 27 gennaio 2009

383


M
idda appariva madida di sudore, quale conseguenza della febbre che ne stava straziando il corpo, dominandola con rabbia, con ferocia priva d’eguali: la sua pelle era stata lavata, la sua carne curata e fasciata, ma dentro, in lei, la battaglia più importante stava avendo inizio proprio allora, nel contrasto all’infezione che avrebbe potuto decretarne la morte o sancirne la vita senza che ad alcun altro fosse data possibilità di intervenire ad aiutarla, a sostenerla.

« Ho fatto tutto quello che mi era concesso: ora è nelle mani del destino. » sussurrò Be’Sihl, sfiorando appena la mano della donna nel confermare tale drammatica situazione.

Indubbiamente su lui maggiormente pesava la responsabilità di quel momento, in un tormento appena comprensibile a sguardi esterni: se ella non fosse sopravvissuta, probabilmente egli non sarebbe riuscito a trovare pace, adducendosi la colpa di non aver fatto abbastanza nonostante, invero, avesse fatto più di quanto ci si potesse attendere da lui, più di quanto credo nessuno avrebbe potuto credere possibile fare. Innanzi ad una tale tragedia, però, appariva chiaro come l’uomo non avrebbe potuto accettare spiegazioni, giustificazioni, per quanto logiche e razionali: i suoi sentimenti per lei, anche se posti da sempre a tacere, non gli avrebbero potuto offrire consolazione o perdono.
Ma, con la forza d’animo che fino a quel momento aveva dimostrato, con quell’empatia che lo aveva contraddistinto al di là del suo brutale aspetto fisico, delineandolo quale persona molto più profonda, molto più complessa di quanto non potesse apparire, ennesima conferma della mia personale filosofia sulle pietre, fu nuovamente il tranitha a prendere il controllo della situazione: egli non ricorse più a battute intrise di sarcasmo, ma offrì una verità, sincera, indiscutibile, in poche semplici parole che ribaltarono completamente la realtà, almeno per come l’avevamo osservata fino a quel momento.

« No. Sbagli. » affermò, appoggiando una mano sulla spalla del locandiere « E’ il destino ad essere nelle sue mani. »

Anche io avrei voluto dire qualcosa, avrei voluto cercare di proporre la mia voce, di confermare quell’opinione per dimostrarmi vivo, attivo, presente accanto a loro, ma di fronte alla situazione mi sentii inerme, impossibilitato ad esprimere qualsiasi emozione.
In me, al contrario, si concedeva essere solo il desiderio di uscire all’esterno di quella stanza, di andare a ricercare un sasso per offrirmi futura memoria di quella giornata e di ciò che durante essa era accaduto: una pietra ferrosa, in tonalità di ruggine, sarebbe stata la scelta migliore, nel ricordare quel sangue, quelle ore di dolore ed angoscia. Allontanarmi in quel momento, però, avrebbe significato tradire la fiducia che Be’Sihl aveva riposto in me, abbandonarlo quando più aveva dimostrato chiara necessità di non restare solo… e così non mi mossi. Nonostante tutto restai ancora presente, in silenzio ma presente, sacrificando le mie esigenze personali e rimandando ai giorni successivi la brama per quella pietra.
Sasso che poi effettivamente cercai e trovai a tempo debito.

« E’ una guerriera: la lotta è ciò per cui è nata. » incalzò il guercio, annuendo con convinzione e cercando di trasmettere tale positività anche al compagno in quella sventura « Lotterà. »

Ed ella lottò…

Tre furono i giorni necessari a Midda Bontor per superare la febbre. Giorni lunghi, immensi, che parvero essere più simili a mesi, soprattutto per noi che vivemmo da spettatori quel momento, quella situazione, impossibilitati a qualsiasi azione nei suoi riguardi. Nel corso di tale periodo, Be’Sihl non volle concedersi possibilità di distrazione, di riposo, per quanto evidentemente la nostra presenza accanto alla donna non fosse né richiesta né necessaria: ovviamente il guercio ed io non saremmo stati costretti in alcun modo a restare a nostra volta al loro fianco, ma entrambi, tacitamente, comprendemmo la situazione ed accordammo la nostra presenza. E dove mai scorderò il grido che Midda lanciò nell’attimo in cui la freccia venne estratta dal suo corpo, ancor meno credo che mi sarà permesso rimuovere l’immagine meravigliosa ed incredibile che in quel mattino, all’alba del terzo giorno dall’intervento, mi si concesse innanzi lo sguardo.
Ho premesso di aver già avuto esperienza con le donne, vero?
Ho sottolineato come né il corpo femminile né i suoi doni fossero per me un mistero, no?
Quella mattina, nonostante tutta la mia competenza in tal campo, fui sul punto di soffocare nell’aprire gli occhi, ancora annebbiati dal sonno, e nel ritrovarmi a pochi pollici di distanza dalle curve della mercenaria, nuovamente vitale e completamente nuda innanzi a me. Invero, nei giorni precedenti, le forme di Midda non erano state un mistero per alcuno fra noi, essendo rimasta sempre nuda sotto le coperte ed avendola detersa da sudore con regolarità almeno due volte al giorno: in quel momento, però, fu come se io ne avessi reale percezione per la prima volta, come se mi fossero del tutto sconosciute e solo in quel frangente le avessi potute apprezzare in tutta la loro pienezza. Ella, evidentemente, aveva ripreso coscienza e stava tentando di raggiungere i suoi vestiti, posti ordinati sullo scrittorio accanto al quale mi ero addormentato, celato nel calore di una coperta di lana grezza: era stata incredibilmente discreta nei movimenti, assolutamente quieta nei propri passi, felina come un gatto, ma qualcosa, forse uno spostamento d’aria, forse semplicemente l’orario e la luce del nuovo giorno, mi aveva invitato a socchiudere gli occhi nel momento più proficuo che mai gli dei mi avrebbero potuto concedere. Ed il respiro mi restò mozzato in gola, facendomi rantolare un suono non meglio definito.

La mia reazione, accolta con sguardo truce dalla donna, fece riprendere di colpo Be’Sihl, che si scosse dal sonno e farfugliò: « Cosa succede? »
« Io… io… » tentai di parlare, di rispondere, di dire qualsiasi cosa o, anche solo, semplicemente e vanamente, di staccare gli occhi dai seni che innanzi al mio viso delicatamente ciondolavano in una rara ricchezza.
« E riprenditi. » mi rimproverò Midda, impossessandosi dei suoi abiti, obiettivo di quell’incursione, e rivolgendo per la prima volta una parola proprio verso di me, con un tono che non riuscii a comprendere, forse serio, forse scherzoso « Sembra che non abbia mai visto una donna nuda in vita tua… »

Ciò che avvenne dopo quel momento non mi fu semplice da seguire ed, a tutti gli effetti, venni dimenticato da tutti i presenti: Be’Sihl, Midda e, persino, il guercio, giunto dopo poco di ritorno da una qualche passeggiata all’esterno, sembrarono ignorare che io fossi ancora in quella stanza, proseguendo nelle proprie discussioni, nelle proprie schermaglie verbali. Io, semplicemente, mi ritrovai ad essere quasi stordito dall’immagine che non voleva abbandonare il mio sguardo, per quel corpo pur ancora ferito, pur ancora debole, che mi aveva comunque donato una nuova concezione non solo di femminilità ma anche di forza.
In pochi minuti la situazione si evolse tanto rapidamente quanto lentamente nei giorni prima era rimasta simile a se stessa, vedendo la mercenaria essere rivestita dal locandiere ed accordarsi con il tranitha per la liberazione di una sua giovane compagna, ragazza con cui era tornata alla locanda in quell’occasione e che, assurdamente, era stata rapita sotto i suoi occhi. E per quanto sarebbe stato sciocco intervenire, una parte di me, forse ancora ammaliata dalla visione offertami precedentemente, avrebbe voluto gridare il proprio supporto alla donna, avrebbe voluto aggregarsi alla sua missione, ignorando ogni rischio, disinteressandosi di ogni pericolo, nella volontà di poterle essere vicino, di poter nuovamente sentire la sua voce rivolgersi a me. Naturalmente restai in silenzio, limitandomi ad osservare dall’esterno la scena e ad aggiungere intimamente la necessità di ricercare un’altra pietra, oltre a quella di cui già avevo preso decisione, nel voler enfatizzare gli eventi di quella mattina, sebbene impossibile sarebbe stato dimenticarli.
Evidentemente, però, quei fatti mi influenzarono molto più di quanto non avrei voluto o potuto intendere al momento, in quel particolare frangente.

lunedì 26 gennaio 2009

382


F
u più di un anno fa, in occasione della terza venuta di Midda, di quel nuovo e quasi non sperato ritorno a casa a seguito di un’improbabile missione all’interno della zona maledetta conosciuta da tempi remoti con il nome di palude di Grykoo, che avvenne un fatto, qualcosa destinato, evidentemente, a cambiare per sempre una parte del mio animo ed a condurmi, irrimediabilmente, a questo mio appuntamento con il destino.
Vorrei poter dire che ricorderò per sempre quel giorno, ma effettivamente non mi è dato di sapere quanto potrà perdurare il mio “sempre” in questa situazione…

« Vieni, presto. » mi comandò Be’Sihl, cercando di dimostrare la sua solita quiete ma mal celando, dietro di essa, un disagio, un’irrequietezza, forse una paura che mai aveva avuto modo di dimostrarmi in passato « Ci servono delle garze puli te, filo da sutura, acqua calda… bollente, ed un coltello ben affilato. »

Simili richieste mi colsero di sorpresa, ma non ebbi volontà, brama di porre in discussione il comando rivoltomi: dove alla solita serenità si stava sostituendo un’emozione tanto incontrollata ed incontrollabile, evidentemente doveva essere accaduto qualcosa di imprevisto e di estremamente grave. A quell’ora della giornata la locanda si poneva essere decisamente affollata, accogliendo molti viandanti per il pranzo ed assorbendo in tal modo l’attenzione di quasi tutti i miei compagni: dove, pertanto, il mio benefattore aveva deciso di rivolgersi esplicitamente a me, io non avevo umano desiderio offrirgli possibilità di delusione, occasione per concedermi rimprovero. Agii pertanto rapido, procurandomi quanto richiesto… aiutandolo a procurarsi quanto richiesto e seguendolo, in conseguenza a ciò, al piano superiore, diretto nelle stanze che sapevo appartenere a Midda.
Solo in quel momento ebbi trasparenza delle ragioni che tanto sconvolgimento avevano ritrovato in Be’Sihl e non potei fare altro che condividerle: la donna guerriero, già entrata nel mito per le imprese compiute, ultima fra le quali essere sopravvissuta alla negazione stessa della vita e della morte, ad una landa da cui alcuno aveva trovato prima fuga, si poneva innanzi a noi, sdraiata sul suo letto, ricoperta da escoriazioni ed immondizia e, peggio, con una freccia conficcata nella schiena.
La mercenaria era stata abbattuta…

« C-cosa è accaduto?! » non potei fare a meno di domandare, sbalordito, forse spaventato da quello spettacolo, osservando l’immagine di tanta forza, di tanta fierezza improvvisamente posta a confronto con la propria umanità, con i limiti che non mi era mai sembrato ella potesse conoscere prima di quel giorno.
« Mi sembra evidente, ragazzo. » replicò una nuova voce « E’ stata ferita… a tradimento aggiungerei. »

Era stato il guercio tranitha a prendere parola: non sapevo chi egli fosse all’epoca dei fatti ed, effettivamente, neanche ora potrei dire di conoscerlo, dove addirittura non credo di avere memoria, o di aver mai avuto nozione, neppure in merito al suo nome. Vero, però, che ad egli in quel giorno si sarebbe dovuto riconoscere, e venne riconosciuto, ogni sentimento di gratitudine per aver portato in salvo, con discrezione ineccepibile, la mercenaria, evitando di farsi notare, ovviando ad ogni sguardo indiscreto e conducendola nell’unico luogo in città in cui ella sarebbe potuta essere accolta, curata, protetta.

« Serve… qualcuno. Qualcuno che l’aiuti! » gemetti, mancando di sangue freddo di fronte a simile spettacolo, umanamente terrorizzato nell’essere innanzi a tanto dolore.
« Peccato che i cerusici non abbondino entro queste mura. » replicò il guercio, con tono quasi sarcastico, o forse pragmatico, in reazione alle mie emozioni prive di iniziativa, di utilità.
« Dobbiamo occuparcene noi. » definì con fermezza, con forza d’animo, Be’Sihl, riprendendo parola e liberandosi le braccia dalle maniche della propria casacca, nel predisporsi all’intervento « Purtroppo non possiamo fidarci di alcun altro: c’è troppa gente, in questa città, che ricaverebbe dei grandi benefici dalla prematura scomparsa di Midda. Non possiamo concederci il rischio che la notizia si diffonda, coinvolgendo altri oltre a noi tre. »

Avrei dovuto sentirmi estremamente onorato da quell’affermazione, dal poter essere presente in quel momento a seguito di simili parole. Senza complicati giri di parole, in assenza di retorica, Be’Sihl aveva infatti sottolineato la considerazione nei miei riguardi quale quella verso una persona fidata, da mantenere accanto a sé nonostante la profonda crisi, l’incredibile dolore che quel frangente non gli sarebbe potuto essere negato. Ovviamente solo a posteriori potei riflettere sulla situazione e sull’onore concessomi: in quel momento preciso, al contrario, ammetto che avrei volentieri rinunciato alla nomina offertami per tornare al mio lavoro, a servire senza rischi, senza responsabilità, senza preoccupazioni i clienti affamati al piano inferiore. Nella mia codardia, comunque, non ebbi cuore di donar voce a quel pensiero, a simile timore, temendo la reazione che esso avrebbe potuto scatenare e restai immobile al mio posto, ubbidiente agli ordini che mi vennero proposti, concedendomi al mio padrone ed affrontando la questione invero con lo stesso animo con cui in passato avevo vissuto incarichi non graditi al servizio di lord Cemas. Ciò che, nella mia stupidità, ancora non stavo riuscendo a comprendere era come in quel momento la situazione fosse assolutamente antitetica alle tante già affrontate in passato: Be’Sihl non era Cemas, non obbligo mi stava imponendo ma aiuto mi stava supplicando, non per la morte aveva richiesto la mia presenza ma nella speranza di concedere la vita. E solo un idiota avrebbe potuto porre le due figure sullo stesso piano. Un idiota come me…
Le ore successive furono lunghe e faticose. Innanzitutto Midda venne spogliata dei suoi abiti e lavata dall’immondizia che ne aveva ricoperto quasi interamente il corpo, a permettere un’analisi più obiettiva della situazione. La freccia, fortunatamente per tutti, soprattutto per lei, non era ancora stata rimossa, tamponando con la propria presenza la ferita inferta: se essa fosse stata estratta prima del tempo, probabilmente non vi sarebbe potuto essere nulla da fare per la mercenaria, laddove precedendo ogni rischio di infezione o di eventuali danni all’organismo, sarebbe stata altresì la perdita di sangue ad decretare la morte della mercenaria. Del resto, dopo ciò che aveva subito, il fatto che ella non fosse ancora deceduta si stava proponendo come evidente segnale di speranza, di una possibilità di salvezza: se il dardo avesse, infatti, colpito punti vitali, alcuna preoccupazione avremmo potuto provare in quel momento, alcun timore avremmo vissuto, ritrovando semplicemente solo la tragica possibilità di rimpiangerla e nulla più.
Inevitabilmente, comunque, il momento fatidico venne raggiunto e nel mentre in cui il guercio, da un lato, ed io, dall’altro, ci premurammo di tenere bloccata la mercenaria, costringendola con forza al letto per impedirle possibilità di ogni movimento improvviso e potenzialmente letale, a Be’Sihl restò la responsabilità di procedere con l’estrazione del corpo estraneo. Non credo che mai potrò scordarmi il grido che Midda generò nell’istante in cui l’azione venne posta in essere, sottolineando il proprio dolore e, in ciò, anche la vita che ancora non l’aveva abbandonata.

« Io non sono mort… aahhh!!! »

Solo all’imbrunire la sitazione parve stabilizzarsi, raggiungendo una momentanea tregua e vedendo la donna, completamente fasciata, essere posta a riposo sul proprio letto, sotto le coperte.
Tutti e tre, così, precipitammo a terra, stremati per quanto accaduto, privati di ogni energia per la tensione che troppo a lungo aveva dominato i nostri corpi nonostante solo Be’Sihl avesse avuto un ruolo realmente fondamentale in quel frangente. Egli, quel giorno, rivelò di possedere capacità fuori dal comune, più degne di un medico che di un locandiere, intervenendo con mano ferma e controllata sulle forme di colei che non avrebbe mai ammesso, ma neppure negato, di amare. E la mia ammirazione per lui non poté evitare di crescere a dismisura.

« Ce la farà? » domandai, con tono incerto, temendo forse la risposta ancor più del dubbio a tal riguardo.
« Se riuscirà a superare la notte sì. » replicò il guercio, osservando la donna.

domenica 25 gennaio 2009

381


P
er quanto non avessi alcuna idea in merito alla sua identità, mi fu immediatamente chiaro come non doveva essere la prima volta che ella poneva piede all’interno della taverna: difficile sarebbe stato credere il contrario nel momento in cui immediatamente dimostrò chiara familiarità con l’ambiente e, soprattutto, con Be’Sihl. Coloro che fra i miei compagni di lavoro erano in servizio da sufficiente tempo per conoscerla, per sapere chi fosse, spiegarono agli altri, che come me ancora non la conoscevano, chi ella fosse e quale fosse la sua attività: non solo per semplice desiderio di chiacchiera, di pettegolezzo, quanto e soprattutto per evitare fraintendimenti derivanti da un abbigliamento fin troppo succinto, il quale ben poco concedeva alla fantasia rivelando altresì la maggior parte delle sue prorompenti forme.

Ora, prima di proseguire questo monologo interiore verso l’appuntamento finale con la morte, ritengo siano d’obbligo una premessa ed una retrospettiva onde evitare incomprensioni.
La retrospettiva riguarda mia madre. Accennando a lei, poco fa, ho tralasciato volutamente qualsiasi dettaglio a suo riguardo: volendo essere sincero, almeno in questa occasione, devo ammettere che non sono mai riuscito realmente a liberarmi della sua ombra, a dimenticare la sua esistenza come avrei voluto, e riferirmi a lei, anche dopo tutto questo tempo, non potrebbe evitare di farmi soffrire. Per questo motivo ho cercato di evitare.
Mia madre era molto bella. Sono consapevole del fatto che, probabilmente, agli occhi di qualsiasi bambino, la madre appare quale la più bella che possa esistere al mondo, una regina stupenda, straordinaria, degna delle antiche ballate, addirittura competitiva con la leggendaria Anmel. Al di là di ogni infantile considerazione, però, sono convinto che ella fosse veramente una donna incantevole come poche, dove alcun altra, prostituta o non, mi è mai stata offerta con il medesimo suo fascino, come almeno tale risulta nei miei ricordi. Umanamente, in un ottica estremamente maschile, non riuscirei neanche ora ad offrir torto a tutti gli uomini che erano disposti a pagare oro sonante per trascorrere delle ore in sua compagnia: però, escludendo ciò che di lei gli altri avrebbero potuto pensare, in un ottica estremamente filiale, ancora non mi capacito su perché ella avesse accettato simile stile di vita. Vero è che in Kriarya per una donna, soprattutto per una bella donna, non sono mai state offerte molte altre possibilità di impiego… ma perché restare lì, allora? Perché sacrificare la propria esistenza in una vita simile quando molto di più le sarebbe potuto essere offerto? Certo non posso evitare di sentirmi ipocrita a pormi queste domande, laddove io stesso, spesso e volentieri, sono ricorso a prostitute per soddisfare i miei capricci e verso di loro non ho mai posto simili dubbi, tali domande. Ma… mia madre, dannazione… mia madre…
La premessa, poi, riguarda proprio il mio rapporto con le donne.
Nel riflettere in merito a Midda e della sua comparsa nella mia vita si potrebbe pensare, infatti, che mai prima di lei avessi veduto una donna o, peggio ancora, mai avessi conosciuto il sesso: non è così. L’esperienza controversa con mia madre non mi ha inibito in alcun modo nei riguardi delle donne o della sessualità e, anche se così fosse stato, nel periodo vissuto al servizio di lord Cemas non avrei potuto evitare di superare tale eventuale ostacolo laddove al mio ex-tutore si propose sempre particolarmente a cuore questo aspetto della mia vita. Egli, in effetti, mi spinse spesso e volentieri a ricercare il calore di una delle sue molteplici protette, quasi impegnandomi in un appuntamento fisso, periodico, nel richiedermi di dar prova della mia virilità: non ho mai saputo, e neanche ora saprei, immaginare il perché di un tale riguardo. Nell’ipotesi che potesse essere mio padre, forse egli aveva timore che la propria eredità, la propria immortalità potesse andare perduta con me, in una mia eventuale inibizione nei confronti delle donne, non avendo egli altra prole ufficiale a garantire al suo nome ed al suo sangue di mantenersi nella storia: escludendo, però, tale eventualità, del resto mai confermata, non sono in grado di proporre alcuna altra ragione per tanta insistenza.
Comunque ora non credo possa essere un dettaglio importante: chiaro, semplicemente, deve essere l’assunto che prima del’arrivo della mercenaria già molte don… d’accordo… alcune donne… avevo avuto modo di conoscere carnalmente, sebbene con alcuna vi fosse mai stato qualcosa definibile come amore. In effetti, fino a quel giorno non credo avessi mai potuto comprendere il vero significato di simile parola, essendo un concetto troppo lontano, troppo estraneo alle mura della città del peccato: con il suo arrivo, però, tutto cambiò, laddove per la prima volta potei conoscere tale emozione vedendola riflessa negli occhi dei suoi due protagonisti…

Midda si propose fin da subito quale una donna di raro fascino, quel genere di immagine femminile al quale non ero più abituato almeno dai tempi in cui fuggii di casa, abbandonando per sempre mia madre: pur non riuscendo, almeno nell’immagine mentale che di quest’ultima conservavo, ad esserle pari, non concedendosi propriamente bella nell’accezione più pura del termine, ella appariva indubbiamente carismatica, emotivamente forte, tale da catturare senza indugi ogni attenzione attorno a sé, soprattutto da coloro che, mio pari, non erano abituati ad un simile confronto. Ma, oltre ad essere una donna, ella era ancor prima un guerriero ed, in questo, alcun pensiero malizioso sarebbe stato salubre se ipotizzato nei suoi confronti, ragion per cui essenziale si propose l’avvertimento concesso a noi che non avevamo avuto modo di conoscerla prima di allora. Non a caso, in quella settimana di permanenza nella locanda, quattro furono le risse in conseguenza di commenti troppo audaci nei suoi confronti: a tal riguardo, comunque, bisogna sottolineare che, nonostante la mia ingenuità nei confronti di molte questioni solitamente considerate “normali”, io compresi immediatamente come in lei fosse presente un chiaro interesse alla colluttazione, ricercandola esplicitamente anche nel momento in cui alcuna occasione per essa sarebbe dovuta esserci ed, in ciò, rendendosi ancor più pericolosa del dovuto.
Non simile carattere, però, fu per me un freno a qualsiasi possibilità di fantasia in merito alla mercenaria, quanto la comprensione dell’esistenza di un rapporto più che particolare fra lei e Be’Sihl. A dispetto di molti miei compagni, infatti, nel cogliere gli sguardi fra i due, i loro battibecchi e le reciproche premure, io non ebbi esitazioni ad intuire l’esistenza di un sentimento diverso, qualcosa che per me era stato assolutamente estraneo fino a quel giorno ma che compresi essere qualcosa di estremamente simile al mio rapporto con i sassi. Sebbene non vi fu mai riprova in merito all’esistenza di un rapporto fisico intimo fra loro, fu immediatamente chiaro come entrambi avessero bisogno l’uno dell’altra, per potersi sentire vivi, per poter trovare un punto fermo in un mondo in continuo movimento, un’ancora nel mare agitato del destino. Ed anche dove, nel proseguimento delle loro reciproche ed estremamente diverse esistenze, probabilmente non vi sarebbe mai stata possibilità di una quotidianità come quella che legava… lega me ai miei tesori, ciò non avrebbe reso meno essenziale, meno desiderato quel reciproco completamento.
Stupidi che non siete altri. Perché continuate a sprecare l’occasione di vivere pienamente il vostro rapporto? Possibile che non comprendiate quanto fragile è la vita e quanto semplice sarebbe perdere per sempre ciò che sembrate dare per scontato? Se solo poteste sentirmi…
… mi ridereste dietro.
Sì, certo. Belle parole, soprattutto se pronunciate da chi ha già commesso tale errore di giudizio ed ora ne sta pagando le conseguenze. Spero solo, per lo meno, che il mio sacrificio possa loro servire a comprendere ciò che sembrano voler continuamente ignorare, volersi testardamente negare: purtroppo sono convinto che neppure dietro tortura né Midda né Be’Sihl avrebbero il coraggio di dichiararsi. Peccato per loro.

Cinque furono le occasioni nelle quali la donna guerriero fece ritorno alla locanda durante il mio periodo di servizio in essa, e cinque splendide pietre, ogni volta, ricercai per la mia collezione. Difficile, in effetti, si propose individuare quali sassi al meglio avrebbe potuto rappresentare l’emozione di quel nuovo incontro, di quelle giornate che, dentro di me, erano vissute sempre come meravigliosi motivi di festa: un opale, una sfalerite, un crisoberillo, una calcite e persino un rutilo furono selezionati, non senza un deciso impegno, per quell’importante compito arricchendo il mio tesoro nella decisa incomprensione da parte dei miei compagni che mai poterono capire il perché mi ostinassi ad accumulare pietre nella mia stanza.

sabato 24 gennaio 2009

380


C
on la paradossale lucidità che ora mi sta distinguendo in questa analisi sulla mia vita, sul mio passato e, soprattutto, su come io sia giunto in questa situazione, non posso evitare di ritenere innegabile che la mia stessa esistenza, nonché la mia considerazione sul mondo e sulle sue dinamiche, si sarebbero proposte decisamente diverse se solo avessi avuto modo di incontrare quell’uomo qualche anno prima, entrando immediatamente alle sue dipendenze invece di finire sotto il controllo dell’allora mio defunto ex-tutore. Per quanto, del resto, mi fossi aggrappato con forza ai miei sassi, ai valori in essi rappresentati, la società mi aveva inevitabilmente corrotto nel periodo trascorso insieme a lord Cemas, allontanandomi da tutti quei principi per i quali ero precedentemente fuggito di casa, rinnegando addirittura mia madre e le mie origini: ideali dei quali Be’Sihl, invero, si propose quale incarnazione perfetta.

« Ehy, ragazzo. Non mi sembri in gran forma… »

Tali furono le prime parole che egli rivolse verso di me, cogliendomi decisamente debole ed affamato a frugare fra i rifiuti abbandonati come consuetudine in un vicolo non lontano dalla sua locanda, nella speranza di trovare qualcosa su cui poter mettere i denti che non fosse già stato opzionato da qualche ratto. O, forse, proprio nel desiderio di agguantare qualche topo da potermi riservare quale pasto… ora sinceramente mi viene difficile ricordare con precisione e non credo sia rilevante ai fini di questa cronaca.

« Me lo dicono in molti, signore… ma non commettere l’errore di lasciarti ingannare dall’apparenza. » risposi con tono fin troppo ardimentoso, nella volontà di difendermi attraverso esso da possibili guai nel non comprendere quanto, in quel momento, essi fossero l’eventualità più distante da me « Se desideri rischiare la tua vita intralciando il mio cammino, sei libero di farlo. Ma ritengo corretto informarti che, al di là di quello che tu puoi credere, io sono veramente… »

… ridicolo.
Non riesco a pensare ad attributi diversi per descrivere l’atteggiamento che assunsi in quell’occasione.
Anzi, in effetti me ne vegono in mente molti, ma fra tutti “ridicolo” è probabilmente quello più cortese.
Del resto, sebbene sia una giustificazione estremamente blanda per perdonare il mio comportamento in quel momento, ero solo un ragazzo impaurito all’interno di una città nella quale anche il più feroce degli assassini non avrebbe osato permettersi l’imprudenza di abbassare la guardia, laddove avesse avuto desiderio di conservarsi in vita e, possibilmente, in salute.
Per quanto evidentemente non avrei mai potuto offrire timore a nessuno con simile presentazione, nel mostrarmi impegnato in una così disperata ricerca, cos’altro avrei potuto fare? Cos’altro avrei potuto dire?

« Non vedo signori qui attorno. » affermò sorridente e tranquillo il locandiere, voltandosi ad enfatizzare il concetto appena espresso in una fittizia ricerca di eventuali destinatari per l’appellativo « E se desideri spacciarti per uno spietato assassino, un pericoloso criminale, forse sarà meglio che tu inizi ad evitare di adoperare tanta reverenza verso uno sconosciuto… »
« C-come? » domandai, spiazzato da quella replica serena, da simile placida reazione, già temendo, nonostante tutto, una risposta violenta alla mia insolenza.
« Mi hai chiamato “signore” prima di minacciarmi: pensi davvero che qualcuno potrebbe prendere seriamente la minaccia offerta da un ragazzino che fruga fra i rifiuti e si premura di riconoscere con un titolo di rispetto i propri possibili avversari? »

Nessuna osservazione avrebbe potuto distruggermi più di quella offertami con tanta naturalezza, tanta semplicità in quel momento, soprattutto perché quanto da lui denotato si poneva, assolutamente e tristemente, vero: avevo cercato di apparire minaccioso, pericoloso, e stupidamente mi ero rivolto alla mia controparte con fare da servo.

« Non sono un ragazzino. » riuscii a rispondere, dopo un lungo momento di incertezza, cercando di dissimulare, dietro apparente stizza per l’utilizzo di quel termine, le reali emozioni di rabbia che non potevo evitare di provare contro me stesso per l’errore compiuto.
« Ti domando scusa, allora, per aver affermato il contrario. Non era mia intenzione recarti offesa… » replicò l’altro, ancora a me sconosciuto, con serena fermezza, quasi inquietandomi nella dimostrazione di una tale tranquillità, insolita per chiunque all’interno di Kriarya.
« In effetti mi sono avvicinato a te unicamente nella speranza di poter richiedere il tuo aiuto. » aggiunse poi, con sguardo sornione.

Devo ammettere che la scelta di quelle parole si rivelò ineguagliabile.
Nell’ipotesi irreale che altri si sarebbero potuti prefiggere di raggiungere il suo medesimo scopo nei miei confronti, essi avrebbero probabilmente offerto il proprio aiuto invece di richiedere il mio, ponendosi pertanto in posizione di superiorità se non, addirittura, di arroganza tale da spingermi a rifiutare ogni speranza di salvezza, per quanto altre vie non mi fossero altresì offerte. Con furbizia, invece, egli non solo si dimostrò in grado di concedermi il proprio aiuto, ma ci riuscì senza neppure farmi pesare la cosa: nel modo in cui aveva descritto la situazione, infatti, il locandiere si conquistò immediatamente la mia simpatia, riconoscendomi la possibilità di un ruolo di importanza in qualcosa. Inutile pertanto sottolineare come non occorse molto per convincermi ad accettare l’occasione offertami innanzi. Un abbondante vitto, dove qualsiasi quantità di cibo in quel momento mi sarebbe apparsa enorme, ed un più che regale alloggio, in paragone con lo scantinato nel quale ero vissuto fino a quel momento, richiesero da me semplicemente l’impegno a prestare quotidiano servizio al fianco del mio benefattore, aiutandolo nella gestione della locanda. Ed in questo, egli non mi pose mai quale suo subordinato, per quanto a tutti gli effetti lo fossi, quanto come amico, compagno di viaggio, in una svolta del tutto nuova ed inattesa per la mia esistenza.

Non mi occorse molto tempo prima di comprendere come il lavoro presso Be’Sihl fosse del tutto diverso dal precedente: per quanto inizialmente sarebbe potuto essere considerato simile, esso si dimostrò ben presto essere indiscutibilmente migliore, soprattutto laddove nello svolgimento del medesimo non mi venne mai richiesta una lunga serie di attività collaterali altresì impostemi al servizio di lord Cemas. Dove il mio ex-tutore, infatti, non si era mai fatto scrupoli a spingermi sempre in incarichi tutt’altro che gradevoli, come quelli relativi allo smaltimento dei corpi dei suoi avversari, volendo in tal modo fare di me, a suo dire, un “vero” uomo, il mio nuovo benefattore si propose con una benevolenza ed una cortesia straordinaria, accogliendomi a sé più generosamente e calorosamente di quanto mai avrebbe potuto fare un mio ipotetico e reale padre. Altri garzoni erano stati assunti già prima del mio arrivo, così altri vennero presi successivamente: ciò nonostante credo di poter affermare, senza falsa modestia, che nessuno fra essi dimostrò mai tanta fedeltà e tanto impegno quanta ne offrii io. Diviso fra il timore di portare ad eventuali ripensamenti il mio nuovo padrone per ciò che mi aveva donato, e che non desideravo assolutamente perdere, ed il senso di gratitudine che inevitabilmente sentivo nei suoi confronti, posi da subito mente, anima, cuore e corpo nell’assolvimento dei miei compiti, riservandomi solo il minimo riposo indispensabile e non concedendomi alcuno svago esternamente alla vita della locanda.
A differenza dei miei compagni, in fondo, io ero tutt’altro che bramoso di avventure, di esperienze emozionanti, avendone già vissute fin troppe in quegli ultimi anni, almeno dal mio personale punto di vista. Ciò che tutti gli altri lamentavano essere un’esistenza abitudinaria, piatta, sempre uguale a se stessa, per me si propose come tutto ciò che mai avrei potuto desiderare.
Almeno fino al giorno in cui, alla locanda di Be’Sihl, fece ritorno una figura già nota a molti ma, per me, ancora sconosciuta: Midda Bontor, donna guerriero.

venerdì 23 gennaio 2009

379


D
ubito che potrebbe essere semplice tentare di spiegare ad un bambino la realtà rappresentata dalla città del peccato: personalmente non ho mai avuto, né mai avrò data la mia condizione attuale, l’incombenza di una tale responsabilità e, nonostante tutti i rancori che non riesco ad evitare di imputarle, non posso che ringraziare mia madre per il suo tentativo di proteggermi dalla realtà a me circostante nella prima e più innocente infanzia. Inevitabilmente, però, la mia fuga da casa complicò il tutto, ponendomi inerme ed impreparato davanti ad un mondo inadatto ad un bambino, pronto a fagocitarmi senza incertezze, senza dubbi.
Ripensandoci ora, invero, non saprei dire in virtù di quale divino volere mi fu salva la vita: probabilmente fu ancora mia madre, che pur non volli rincontrare, a porre una buona parola per me con il suo protettore, il suo mecenate, e questi, in conseguenza, fece modo di imporre un qualche veto attorno alla mia persona, tale da impedire alla morte di raggiungermi laddove sarebbe stato ovvio che ciò avvenisse.
Maledizione! Sto morendo ed ancora trovo la forza di mentire a me stesso?
D’accordo. Ci riprovo. Ho sempre saputo che fu solo per merito di mia madre, colei che era e sarebbe ancora stata a mia insaputa la sola speranza di salvezza per un bambino che da lei aveva voluto tanto precipitosamente cercare fuga, che potei essere posto al sicuro, evitando che il mondo a me sconosciuto mi annullasse completamente, impedendomi ogni possibilità di crescere, di raggiungere un’età più matura e, forse, meno stupida. Alcuni uomini, così, mi trovarono e mi condussero ad una delle tante torri di Kriarya, dove lord Cemas si propose quale mio tutore.

Non nego di aver più volte considerato lord Cemas quale mio potenziale padre, soprattutto negli anni in cui raggiunsi la consapevolezza del mestiere in cui prodigava il proprio tempo e le proprie energie mia madre: difficile, altrimenti, sarebbe stato ipotizzare la ragione per cui un signore della città del peccato si sarebbe dovuto interessare al figlio di una delle sue prostitute. Ovviamente mai il fato mi concesse conferme in tal senso né, invero, io le ricercai: in merito all’identità di mio padre, con il passare del tempo, non provai più alcuna curiosità, non ebbi più sogni, di pari passo alla separazione sempre più netta che mi imposi nei confronti delle mie origini. La mia vita, ormai, aveva intrapreso una nuova strada e, per quanto tutt’altro che semplice o gradevole essa potesse apparire, fu comunque una via per proseguire oltre.
Divenni così tuttofare al servizio dei servitori del mio mecenate, impiegato a tempo pieno per garantire il mantenimento del regale tenore di vita del medesimo all’interno della propria torre: pulire pavimenti, lucidare armi, liberarmi dell’immondizia… questi e molti altri furono per lunghi anni i miei principali impieghi, gli unici interessi della mia esistenza al di fuori dei sassi.
A quello che raccolsi a seguito della fuga dalla casa in cui ero cresciuto, infatti, molti altri si aggiunsero nell’alternarsi delle stagioni: ormai libero da ogni vincolo parentale, nessuno avrebbe potuto negarmi quella mia scelta, quella mia passione, e nelle pietre non solo potrei trovare amiche fedeli ma, anche, delle rappresentazioni materiali di ogni momento della mia esistenza. Sebbene almeno inizialmente fu sicuramente un gesto infantile, quasi una sorta di vendetta nei confronti di mia madre e di tutte le sue idee sui sassi, nel corso del tempo maturai l’abitudine di associarli a qualsiasi evento della mia stessa esistenza, bello o brutto che esso potesse apparire: un complimento ricevuto dai miei superiori mi portava, inevitabilmente, a ricercare una pietra per festeggiare simile risultato, per quanto misero sarebbe potuto apparire ad occhi esterni; un rimprovero, altresì, mi spingeva in uguale direzione allo scopo di segnare simile sconfitta e tenerne memoria per il futuro. La fossa fuori città dove venni accompagnato per trasportare il primo cadavere di cui ebbi incarico di liberarmi, a otto anni, mi offrì l’occasione di porre le mani su uno splendido quarzo, metà ruvido ed opaco e metà cristallino e lucente, in tonalità variabili fra il bianco grigiastro ed il ramato. A undici anni, dopo aver fallito nel compiere il mio primo furto, nella volontà del mio padrone di potermi utilizzare per scopi diversi da quelli in cui ero stato preposto fino a quel momento, raccolsi una rara pietra lavica, nera e porosa, l’unica su cui mai sia riuscito a porre le mie mani per quanto impegno in ciò possa aver messo data la loro minima presenza nel territorio di quella provincia. Nel vicolo dove per la prima volta mi incontrai con una delle ragazze al servizio di lord Cemas, per festeggiare il mio presunto tredicesimo compleanno o quello che comunque egli stabilì essere tale, ebbi modo di raccogliere una meravigliosa selce di color verde giallastro, liscia e parzialmente scheggiata nell’offrire un lato a dir poco tagliente.
I pochi e scarni piedi quadrati di spazio a me concessi quale stanza personale, ricavati nelle fondamenta stesse della torre del mio signore, così, si arricchirono ben presto dei miei tesori, delle mie ricchezze, alle quali alcuno avrebbe mai attentato, si sarebbe mai interessato. Nel rispetto di tutti i pregiudizi già dimostrati da mia madre, infatti, per il mondo intero quelli sarebbero apparsi sempre e solo quali banali sassi, negando loro qualsiasi pregio, qualsiasi valore. E dove, se io avessi posseduto “pietre preziose” non avrei potuto trovare requie nel timore di perderle, con i miei “banali sassi” non mi venne mai offerta pena, altresì permettendomi di vivere serenamente la mia esistenza, rimirandoli ogni sera, ripassandoli uno ad uno nelle loro forme, nelle loro proporzioni, nei loro pregi e difetti.
Una chiara realtà non mi fu difficile da comprendere, in quegli anni: inesorabilmente il tempo sarebbe trascorso, i ricordi si sarebbero affievoliti e le persone sarebbero morte. I sassi, al contrario, sarebbero sempre rimasti uguali, immutabili, proponendosi simili ad un’ancora stabile, irremovibile, all’interno del mare agitato, perennemente in tempesta, rappresentato dalla vita e dal destino: solo le pietre, non a caso, restarono al mio fianco nel fatale e tragico giorno in cui lord Cemas venne meno.
Non per ragioni di vecchiaia, quanto più banalmente per un complotto ordito a suo discapito, il mio ipotetico padre e certo tutore, colui che mi aveva garantito fino ad allora una possibilità di crescere, fu ucciso nelle sue stesse stanze. In quell’occasione, per la cronaca, io non fui presente ma anche se lo fossi stato probabilmente non avrei potuto o voluto intervenire. Dopo aver scoperto la verità sul mondo a me circostante, infatti, un deciso grado di disillusione non mi era stato negato, influenzandomi prepotentemente ed allontanando da me ogni sogno infantile di eroiche imprese, di epici scontri, di vittorie leggendarie. Probabilmente in conseguenza di ciò, o più semplicemente per una totale assenza di predisposizione in tal senso, tutti i tentativi proposti dal mio signore per spingermi ad ascendere a ruoli sociali più elevati rispetto a quello di sguattero, che mi aveva da sempre caratterizzato, erano miseramente falliti: non ladro, non mercenario e non, di certo, assassino avevo dato prova di poter essere al suo servizio, nonostante occasioni di offrirmi in tal senso non mi fossero state negate. E per questo, di certo, inutile sarei stato di fronte a coloro reclutati per decretarne la fine.

A quindici anni mi ritrovai così costretto a lasciare nuovamente un luogo in cui mi ero sentito come a casa, la torre del mio defunto tutore, non negandomi in questa occasione un certo malincuore e rimpianto: fortunatamente al mio fianco non mancarono di essere i miei sassi, che non ebbi esitazione a raccogliere in un sacco per trasportarli meco nella ricerca di un nuovo futuro. Il nuovo occupante della torre, così come le sue guardie personali, non offrirono del resto alcun interesse né nei confronti del mio tesoro, né nei miei… perché avrebbero dovuto, in fondo?
Per diversi giorni vagai lungo le strade di Kriarya, accompagnato unicamente dai miei sassi. Se la sete non si propose fortunatamente quale un problema irrisolvibile, ritrovando in numerose fonti sparse per la città l’occasione di essere evitata, la fame purtroppo apparve già più grave e difficilmente ignorabile: la mia vita, i miei sassi ed i quattro stracci che avevo indosso in quel momento mi erano infatti stati concessi nella mia partenza dalla torre, ma solo quelli e null’altro, non un tozzo di pane, non un pezzo di carne essiccata e, soprattutto, non un po’ di oro per potermele procurare altrimenti.
Strinsi letteralmente la cinghia dei miei pantaloni, cercando di ignorare quel malessere prepotente, tentando di immaginare come potermi impiegare nel momento in cui nessun altra occasione sembrava proporsi in mio soccorso, in mio aiuto, come già era stato in passato. In effetti, a pensarci bene, non brillai di iniziativa laddove la soluzione che alla fine riuscii a trovare si propose essere quella più ovvia, più banale e più scontata a cui mai avrei potuto fare riferimento.
Fu così che raccolsi un nuovo sasso, una lucente magnesite bianca, a sancire l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita nell’incontro con Be’Sihl Ahvn-Qa.

giovedì 22 gennaio 2009

378


E’
difficile pensare che io possa essere giunto a questa situazione.
Anzi… no. Forse, in effetti, non si può che considerare normale il fatto che io sia giunto a questa situazione. Molti altri, al mio posto, non si sarebbero probabilmente neppure imbarcati in un viaggio come quello che, al contrario, io ho insistentemente cercato: uno, come me, che ha trascorso la sua intera esistenza nell’anonimato non avrebbe dovuto pretendere, da un giorno all’altro, di diventare una specie di avventuriero ed uscirne illeso. Io ho commesso simile errore, per mia sfortuna.
… credo di star morendo...
Non riesco più a percepire alcun muscolo del mio corpo, la vista è confusa, il respiro praticamente inesistente, impossibilitato ad essere, ed il freddo mi domina fin dentro le ossa: è la sensazione che si dovrebbe sentire in simile frangente, no? Credo di aver sentito ipotesi secondo cui, innanzi alla morte, l’intera vita viene riproposta agli occhi del malcapitato… purtroppo per me, in questo momento, davanti a me è solo il caos.
Dei... forse sarebbe il caso che io pregassi qualche dio? Credo di sì. Probabilmente sì. Sto morendo e questo sarebbe il momento migliore per pregare… se lo sapessi fare. Peccato che in passato non abbia mai avuto occasione di soffermarmi nell’analisi della mia religiosità.
Se solo riuscissi a farlo scoppierei a ridere per quanto questa situazione si ritrovi ad essere paradossale. Possibile che non riesca neanche a morire in modo normale?
Alla fine di tutto, almeno, rimangono accanto a me i miei sassi…

Ero ancora piccolo, molto piccolo, il giorno in cui decisi di raccogliere il mio primo sasso. Credo sia una cosa comune a tutti i bambini quella di cercare ninnoli con cui divertirsi e, indubbiamente, le pietre sono, fra tutti i possibili candidati a simile ruolo, quelle che riscuotono maggior successo: il mondo, dopotutto, è ricoperto di rocce e sassi e qualsiasi pargolo, lasciato tranquillo a giocare fuori casa, inevitabilmente incapperà nel proprio primo sasso. Sono poche le memorie che conservo di quel periodo, ma di esso mi ricordo perfettamente. Era, o comunque ai miei infantili occhi appariva, quale l’oggetto più incredibile e meraviglioso del mondo, offrendo, su una superficie piatta e tonda come quella di molti ciondoli di mia madre, un colore fra il blu scuro ed il nero, solcato da due righe bianche, parallele, al proprio interno: più grande delle mie minuscole mani, quel tesoro prezioso si era offerto a me come una fra le meraviglie del creato, splendido in quella sua vellutata opacità, in quei suoi colori così perfetti. Inutile sarebbe sottolineare come simile gioia fosse stata per me una fonte d’orgoglio fuori dal comune: i bambini, del resto, sono creature semplici, innocenti, capaci di emozionarsi per un’infinità di situazioni altresì ignorate dagli adulti, capaci di reinterpretare la realtà a proprio piacimento trasformando un bastoncino in un’arma indistruttibile o un sasso in un gioiello unico e prezioso.
Quel primo sasso, in particolare, oltre ad una conquista quasi leggendaria si era proposto quale mio amico, compagno di giochi in una giornata indimenticabile, fedele alleato contro tutto ciò che di spaventoso il mondo mi avrebbe potuto offrire: purtroppo, però, simile rapporto, tale affetto indiscriminato, mi venne negato dopo troppo poco, un’ora o forse meno, dall’intervento di mia madre. Del resto, così come tutti i bambini cercano ninnoli con cui divertirsi, tutte le loro madri normalmente si pongono in esplicito contrasto con simili conquiste, non comprendendo come anche in un semplice sasso possa essere racchiuso un universo intero: agli occhi di tutti gli adulti una pietra non apparirà mai quale nulla di più di una pietra.
Falso.
Anche agli occhi degli adulti non tutte le pietre sono semplici pietre: basta, infatti, che una dimostri di risplendere in modo diverso dagli altri, rivelando un pregio meno comune, più raro, affinché improvvisamente diventi incredibilmente preziosa. Un’ingiustizia, sicuramente, che si ritrova ad essere riflessa, del resto, anche nella realtà quotidiana, dove non solo i sassi, che agli occhi di un bambino sono e sempre saranno tutti meravigliosi, subiscono arbitrarie distinzioni in base alla propria semplice apparenza, discriminazioni in virtù dell’ipotesi di un proprio intrinseco valore, attribuito altresì solo dal pensiero comune, ma anche ogni altro elemento del creato, compresi animali e uomini. Ritengo che in questo modo nasca il potere, in questo modo nascano i soprusi: laddove una pietra riesce ad essere considerata preziosa solo perché risplende in maniera diversa da un’altra, offrendo ad una privilegi ed onori ed all’altra solo la polvere della strada, perché le persone dovrebbero avere diritto ad un trattamento diverso, ad un altro criterio di giudizio?
Facile proporre simili pensieri innanzi alla morte… più complicato, invece, difenderli in vita.
Io non ho mai scordato quel sasso e, negli anni a venire, pur crescendo, pur maturando, ho cercato sempre il mio diletto in ciò che comunemente gli altri ignorano. E non credo di essere mai riuscito a perdonare mia madre per avermi privato di quell’incredibile amico mai più ritrovato: non certamente da bambino… come avrei del resto potuto farlo?... ma neppure dopo, nel momento in cui divenni in grado di comprendere aspetti della vita prima a me celati o, comunque, ignorati nell’ingenuità infantile. Anche ora, in effetti, mi viene difficile pensare di poterla perdonare per quel gesto, quell’atto incosciente da parte sua, ma fin troppo ricco di significati al mio sguardo. Ella mi negò un motivo di gioia perché ritenuto inutile, privo di valore, non diverso da qualsiasi altro sasso presente in strada. Ma con quale arroganza, con quale diritto si permise un simile giudizio laddove ella non valutava se stessa di certo superiore ad una manciata di povere d’oro? Anche l’oro è pietra e la polvere d’oro, come indica il termine stesso, altro non è che polvere: per quale ragione uno splendido sasso sarebbe dovuto essermi negato nel momento in cui ella, per molto meno, non aveva mai negato il proprio corpo a qualsiasi uomo lo avesse richiesto?

Da bambino, naturalmente, non conoscevo né mai avrei potuto comprendere il sesso e, peggio ancora, il sesso mercenario.
Mia madre, per ipocrisia o, forse, per amore, cercò di crescermi lontano dal suo mondo, dalla sua professione, raccontandomi tante belle storie su mio padre. In simili illusioni, egli era descritto quale un meraviglioso cavaliere, un incredibile guerriero dalla lucente armatura, capace di compiere imprese oltre ogni umana possibilità di successo, di spingersi al di là degli stessi confini del mondo per porre sfida anche agli stessi dei: nel contesto fittizio di tali storie, poi, egli si poneva essere perduto da anni, forse morto ma più probabilmente prigioniero in qualche terra lontana, in attesa del momento propizio per tornare indietro, per ricongiungersi a noi, sua famiglia. Non conobbi mai mio padre, ovviamente, anche perché mia madre non avrebbe mai saputo indicare con certezza chi sarebbe potuto essere: troppi possibili candidati, tutti per lo più senza neppure un nome o un volto da ricordare.
Forse avrei dovuto essere grato a mia madre per ciò che fece, per il tentativo di offrirmi una vita normale in cui impegnò tutte le proprie energie, laddove molte altre al suo pari rifiutano di concedersi preoccupazione per i propri figli o, peggio ancora, di concedere la vita ai propri figli. Obiettivamente, il suo non avrebbe dovuto che essere giudicato come un atto d’amore, per quanto mai riuscii a valutarlo in simile modo.
Facile raggiungere tali consapevolezze innanzi alla morte… più complicato, invece, maturarle in vita.
Naturalmente il giorno in cui, non troppo grande per essere considerato un ragazzo ma non troppo piccolo per essere considerato ancora un bambino, scoprii mia madre a letto con un uomo, non ebbi modo di condurre un ragionamento ponderato, di analizzare la questione a fondo, valutando con freddezza la situazione. Da parte sua lo vissi come un tradimento, innanzitutto per me stesso e poi, anche e stupidamente, per il padre che mi illudevo un giorno sarebbe venuto a stringermi fra le sue forti braccia, raccontandomi in prima persona di tutte le sue incredibili avventure e portandomi in giro per la città in groppa al suo possente cavallo. In quel giorno fuggii di casa, gettandomi allo sbaraglio in un mondo assolutamente nuovo ai miei occhi, un mondo in cui ogni cosa iniziò ad assumere valori e connotati diversi da quelli con cui era stato osservato fino a quel momento: dove mia madre tanto aveva insistito per dimostrarmi la differenza fra un gioiello ed una banale pietra, improvvisamente mi risultò chiaro come l’intero Creato fosse altresì costituito principalmente da quelle che lei aveva identificato quali banali pietre e come anche io, inevitabilmente, fossi una di esse.
Solo e spaventato per le strade pericolose di Kriarya, così, cercai rifugio in un vicolo, in un angolo, raccogliendo proprio in quel punto il mio secondo sasso, da cui mai più mi separai.

mercoledì 21 gennaio 2009

377


A
nche quella sera i due gemelli non dimostrarono alcuna intenzione a prendere facilmente sonno.
Sebbene quell’intrinseca caratteristica fosse causa di molti disagi per la loro famiglia, nessuno all’interno di quella casa avrebbe potuto dirsi bramoso del giorno in cui entrambi si sarebbero proposti troppo grandi, troppo maturi per aver voglia di dormire quietamente, senza più offrire capricci, senza più richiedere l’intervento di una figura parentale. Del resto tale era la vita e, volenti o nolenti, i due bambini sarebbero presto cresciuti vedendo i propri interessi spostarsi verso argomenti più concreti rispetto a semplici favole e, in questo, iniziando a separarsi inevitabilmente dall’abbraccio dei propri cari: stupido e vano sarebbe stato, pertanto, lamentarsi per quei capricci, per quelle piccole ed innocenti isterie serali nella richiesta di un po’ di attenzione, laddove presto alcuna attenzione sarebbe stata richiesta ed, al contrario, sarebbe divenuta al contrario un fastidio e non una necessità.

« Mamma… Ma-a-am-m-ma… » invocarono entrambi, seguendo quasi ritualmente una prassi accertata, nella richiesta della presenza materna al loro fianco, nel voler concedere alla madre l’occasione di intervenire in risposta alle loro voci.

Normalmente quella richiesta non trovava immediata reazione, dato che i giochi della giornata, uniti ai già tanti impegni quotidiani, lasciavano la madre eccessivamente stremata per poter intervenire, per potersi offrire ancora una volta ai propri pur amati figli. In quegli ultimi giorni, però, la necessità era dovuta divenire virtù nel momento in cui la seconda carta da giocare, quella solitamente vincente in simili capricci serali, era venuta meno, partita per un lungo viaggio dal quale forse non avrebbe potuto fare ritorno.
Ma per i bambini l’idea di perdere la loro compagna preferita, forse la più fedele complice che avessero mai avuto, non era stata un’idea accettabile e, sebbene ormai avrebbero dovuto comprendere come alla seconda richiesta sarebbe inevitabilmente accorso il padre, essi non demorsero nella loro dolce ed infantile ingenuità, dimostrando probabilmente, in tal modo, il proprio affetto indiscusso nei riguardi di colei che non avrebbe potuto evitare di mancare loro, di colei la cui assenza non avrebbe potuto evitare di gravare sulle vite di tutti i membri della famiglia, non solo per l’aiuto che non aveva mai comunque rifiutato in qualsiasi situazione ma, più banalmente, per il valore rappresentato da quella stessa figura nelle loro esistenze.

« Nonna… no-o-on-n-na… » gridarono, pertanto, i due, offrendo vocalizzi in note decisamente troppo acute per risultare gradite non solo all’interno di quell’abitazione ma, anche, in tutto il vicinato.
Quella sera, però, l’incredibile divenne realtà, nel lasciar comparire sulla soglia della loro stanza quell’immagine tanto bramata e, quasi, ormai non sperata: « Quante volte vi dovrò ripetere di non gridare come degli ossessi, razza di lestofanti? » domandò Heska, sorridendo innanzi ai due pargoli.
« Nonna?! » si zittirono, sinceramente stupiti, non riuscendo quasi a credere a quell’inattesa ricomparsa « Nonna! Nonna! » esultarono poi, saltellando semplicemente entusiasti nel poterla rivedere, nel potersi nuovamente tendere a lei.
« Vehnea… » sorride con dolcezza la nonna, scuotendo il capo e correndo incontro ai due nipotini, felice di poterli abbracciare ancora una volta, di poterli stringere a sé come mai avrebbe creduto di poter essere « Non ditelo in giro, ma sappiate che i vostri capricci mi sono mancati tantissimo! »
« Nonna tornata… » commentò Jarah, aggrappandosi alla spalla sinistra della propria amica, felice come mai per quel ritorno, per quella riconciliazione.
« Nonna non va via mai… » aggiunse Thomar, con un tono a metà fra una supplica ed un ordine, nello stringersi altresì al braccio destro di lei, sorridendo a sua volta contento oltre misura.
« Hai ragione, birbante che non sei altro. » schioccò ella un sonoro bacio contro il capetto del bimbo a quelle parole, a quella richiesta, stringendoli entrambi dolcemente a sé e piano cullandoli « Non andrò più via. La mia vita è completa qui con voi… con voi, con vostra madre e con vostro padre. Null’altro potrebbe offrirmi più gioia… più serenità. »

Non tutte quelle parole riuscirono ad avere un senso compiuto alle orecchie dei due bambini, anche perché in esse era celata una verità molto più ampia di quanto chiunque in quell’isola avrebbe potuto conoscere, il significato di un’intera esistenza, della sua vita. Forse un giorno Heska avrebbe condiviso il racconto della propria avventura con il mondo, forse una canzone ne avrebbe ritratto gli episodi più incredibili, ma difficilmente ad un ascoltatore sarebbe stata concessa la possibilità che a lei era stata donata, l’occasione di comprendere pienamente il senso della quotidianità, così rinnegata da molti eppur così desiderata da coloro ai quali essa è negata.

« Ora… storia?! » domandò Thomar, scuotendo appena la nonna, superando quel momento di commozione e ricordandosi una delle ragioni principali per cui la loro parente sarebbe stata necessaria in una sera come quella « Bella storia… »
« Sì… bella storia! » concordò Jarah, appoggiando pienamente la mozione proposta dal proprio gemello.
« Che furfanti. » commentò divertita Heska, scuotendo il capo « Sono sbarcata da neanche un’ora e già volete mettermi al lavoro?! »
« Storia… » si limitarono a sottolineare i due bambini, ricorrendo ad una strategia emotiva e sfoderando, in ciò, lo sguardo più lacrimoso e commovente di cui erano in grado.
« Midda… » incalzò, in particolare, il primo, ormai slanciato nel ruolo di comando in quella sera « Storia Midda bella... »

La figlia di Lafra sorrise a quella richiesta, baciando silenziosamente entrambe le nuche dei gemelli prima di lasciarli delicatamente riappoggiare sul letto e sedersi fra loro. La sua mente non poté che correre, con il proprio pensiero, all’amica, ritrovata e nuovamente perduta, a quella sorella così poco conosciuta eppure alla quale lei stessa, come probabilmente ogni altra donna o uomo di quel continente, doveva non solo il proprio presente ma anche il proprio futuro.
Midda era stata sacrificata, forse contro la propria volontà, in nome di un bene superiore, di un equilibrio universale da dover preservare e proteggere: non aveva potuto dirle addio, non aveva potuto offrirle un ultimo saluto, laddove priva di coscienza, la Figlia di Marr’Mahew era stata accolta nell’abbraccio della fenice, bruciando in un turbinio di fiamme tali da consumarle entrambe. Insieme a Carsa, un tempo amica, poi nemica ed ora, semplicemente, vittima del destino, aveva assistito alla scomparsa di colei per cui era stata pronta a porre in gioco la propria vita senza esitazioni, senza dubbi: colei che, con la testimonianza della propria esistenza, delle proprie scelte e delle conseguenze derivanti dalle stesse, le aveva concesso una nuova occasione di crescita non diversamente da come era occorso trent’anni prima.
Sbagliato sarebbe stato dire che mai più a quella sua sorella di fato ella si sarebbe ispirata, sbagliato sarebbe stato pensare come innanzi a quella nuova consapevolezza l’immagine prima quasi idolatrata ora sarebbe stata rinnegata: al contrario, proprio adesso più che mai, Heska avrebbe fatto tesoro del retaggio concessole da lei, quell’eredità donatale non tanto per spingerla ad essere un guerriero migliore ma, semplicemente, una donna migliore. Non era stato semplice comprenderlo, e per tre decenni aveva errato nella propria valutazione, nelle proprie considerazioni, ritrovando in lei un’icona di forza, di potere, convincendosi di dover tendere a simile distorta interpretazione di quel cammino di vita: ora, però, in quel pur fuggevole ritorno della sorella, ella aveva avuto finalmente l’occasione di correggersi e, in questo, di scoprire l’umanità celata dietro al mito.
Certamente sarebbe stato triste e doloroso il pensiero di non poter più avere modo di incrociare i suoi occhi di ghiaccio, di udire la sua voce esprimere sprezzanti opinioni sulla vita e sul mondo, di camminare al suo fianco. Certamente sarebbe stata angosciante l’idea del fato che avrebbe atteso l’amica nel proprio futuro, quel destino irrimediabilmente legato alla regina Anmel, della cui liberazione era stata artefice inconsapevole eppur volontaria. Nonostante tutto questo, però, Heska non avrebbe potuto mancare di sentirsi felice, di cedere ad un sincero e puro sentimento di gioia, laddove un’immagine le era stata concessa in dono dalla fenice subito dopo la loro scomparsa, una scena proiettata direttamente nella sua mente da un altro luogo, un altro tempo.
Ella aveva veduto Midda Bontor, donna guerriero Figlia di Marr’Mahew, rinata dalle fiamme della fenice, tornata ad essere colei che serbava nei propri ricordi, nelle proprie memorie: raggomitolata nuda a terra, in posizione fetale, la donna, nello splendore dei propri trent’anni, si era mostrata dolcemente adagiata su un manto erboso, splendida come una ninfa immersa nella natura quasi incontaminata di un paesaggio montano. Ma non completamente sola, innanzi agli occhi della sua mente, la sorella si era concessa: subito dopo, infatti, un’immagine maschile le era accorsa al fianco, gridando parole da Heska non udibili in quella visione lontana, ma dimostrando, nel proprio volto e nei movimenti delicati con cui su di lei si era chinato premurosamente, un sentimento puro e sincero. E senza alcuna fatica, senza il minimo sforzo, nelle fattezze di quell’uomo la figlia di Lafra aveva avuto modo di riconoscere immediatamente Ma’Vret Ilom’An, il padre di H’Anel e M’Eu che mai aveva avuto, invero, occasione di incontrare in passato, comprendendo in simile presenza la volontà della fenice, il piano di quella incredibile e forse divina creatura.
Certamente sarebbe stata angosciante l’idea del fato che avrebbe atteso l’amica nel proprio futuro, quel destino irrimediabilmente legato alla regina Anmel. Ma il pensiero che, insieme a questo, le sarebbe stata concessa anche l’occasione di poter vivere la propria vita con la pienezza a cui aveva rinunciato la prima volta, di poter rimediare all’errore compiuto trent’anni prima nel rifuggire all’esistenza, non avrebbe potuto evitare di rallegrare l’animo di Heska. A Thare, Vehnea, Tyareh e Marr’Mahew, ogni sera avrebbe elevato le proprie preghiere, richiedendo loro di aiutare la sorella non solo nel superare i pericoli che le si sarebbero immancabilmente offerti innanzi nella propria lotta contro oscuri ed incredibili poteri ma, anche, nel raggiungere finalmente la propria pienezza, la propria completezza di cui ella era indubbiamente meritevole per quanto forse, mai, sarebbe stata capace di ammettere innanzi al proprio animo.

« Nonna?! » tentarono di richiamarla i due nipotini, cogliendola distratta « Storia bella… Midda… »
Ed Heska si riprese dai propri pensieri, sorridendo ai due nipotini prima di iniziare a narrare, con tono sereno: « C’era una volta, tanto tanto tempo fa… »

martedì 20 gennaio 2009

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« V
ehnea… »

Heska aveva assistito a quel confronto quale immobile ed inerme spettatrice al pari della sorella.
Nel suo corpo, nel suo ventre, ancora era permasa la freddezza del contatto con la lama nemica. Nella sua mente ancora era coscienza di come la morte l’avesse non solo sfiorata ma, addirittura, abbracciata con forza, con vigore, trascinandola ineluttabilmente verso il proprio destino. Eppure la vita non l’aveva abbandonata. Al contrario: in conseguenza inequivocabile dell’intervento della fenice, ella sentiva come le sue membra avessero acquistato un’energia che non avrebbe mai pensato di poter avvertire, una vitalità forse da sempre negatale. Ciò nonostante, per quanto avrebbe potuto levarsi tranquillamente dal suolo un istante dopo l’inizio dello scontro fra l’immortale creatura di fuoco e la regina Anmel, umanamente ella non era riuscita a trovare occasione psicologica di farlo, tremando al pensiero di quanto fosse accaduto e di quanto ancora si stava proponendo innanzi a lei.
Solo nel momento in cui, dopo un ultimo ed accecante bagliore tanto intenso da far pensare alla nascita di un nuovo astro innanzi a loro, la loro avversaria era svanita, definitivamente sconfitta nel confronto con un potere a sé superiore; solo quando le tenebre malvagie imposte su quella landa di morte si concessero dissolte nel nulla, dimostrando ora un cielo più chiaro, ugualmente colmo di nuvole cineree ma, ora, capaci di dimostrare anche tiepidi raggi solari fra le esse; la donna trovò di nuovo coraggio per comandare alle proprie membra di muoversi, al proprio corpo di levarsi, al fine di tentare di avvicinarsi all’amica, alla sorella, ancora stesa a terra apparentemente priva di sensi.

« Midda… » sussurrò, tentennando verso di lei, temendo il peggio nel coglierla in tal maniera « Midda?... Dei, fate che non sia... »
Non gli dei, però, offrirono risposta a quell’invocazione, prima ancora che essa fosse conclusa, quanto la stessa fenice, proposta ancora vicino a loro, accanto a loro, in tutta la propria meravigliosa ed infuocata presenza: “Non temere. Non lo è…”

Forse diffidando di quelle pur sincere parole, forse temendo tale presenza superiore ad ogni propria capacità di comprensione, Heska non arrestò i propri passi ma raggiunse l’amica allo scopo di potersi chinare su di lei per auscultarne il battito cardiaco, nella speranza di non avere difficoltà ad udirlo.
E, fortunatamente, esso si propose, stanco, debole, eppur presente al proprio orecchio.

« Hai salvato me… non puoi fare qualcosa anche per lei?! » domandò, risollevandosi e rivolgendosi direttamente alla fenice, dimentica in ciò del rispetto che avrebbe dovuto probabilmente offrire verso una tale creatura, non per blasfemia nei suoi riguardi quanto, semplicemente, in conseguenza del proprio animo semplice, onesto, che si concedeva senza timori e malizie anche nel confronto con colei davanti alla quale la stessa Midda Bontor, trent’anni prima, si era ritrovata a doversi inginocchiare in lacrime.
“Ho intenzione di fare molto più di quanto tu non creda, Heska Narzoi.” rispose con immutata ed immutabile serenità l’uccello di fuoco, offrendo simili parole direttamente nella sua mente, come aveva fatto fino a quel momento, insieme ad un sentimento di pace privo di possibilità d’eguali.

Prima che la donna potesse, però, approfondire la questione, un altro evento ne richiese l’attenzione, facendo correre il suo sguardo a rintracciare l’origine di lievi gemiti e ritrovando la medesima in Carsa, colei che si era proposta come loro nemica. Istintivamente, umanamente, il suo corpo e la sua mano corsero alla spada ancora abbandonata a terra, per riconquistarla ed essere pronta ad affrontare quel pericolo: aveva creduto che ogni ostacolo fosse stato eliminato, che la regina Anmel fosse stata annientata, ma quel movimento parve voler contraddire simile ipotesi.
La giovane, invero più vicina all’età della figlia che alla propria almeno nel proprio aspetto fisico essendo comunque probabilmente a lei coetanea, restò ancora per un lungo momento a terra, prima di tentare di riprendersi, di risollevarsi da quella posizione, stordita, disorientata: inevitabile fu come simile sentimento, tale emozione, tanta confusione non ebbe ragioni di diminuire ma, al contrario, di aumentare, nel ritrovarsi una spada puntata alla gola da parte di una presenza che non sembrava conoscere.

« Chi… sei?! » domandò, socchiudendo gli occhi nello squadrare la figura della figlia di Lafra, a tentare di comprendere le ragioni di quell’ostilità davanti alla quale si ritrovò, suo malanimo, ad essere disarmata « Dove sono?! »
Solo dopo aver formulato tale domanda, lo sguardo di Carsa fu attratto dalla luce a loro tremendamente vicina, individuando immediatamente il profilo etereo della fenice: « Oh… dei… » sussurrò, restando senza altre parole di fronte a tale magnificenza, disinteressata in essa anche del pericolo incombente su di sé e rappresentato dalla lama appoggiata al proprio collo.

Innanzi ad una tale reazione, Heska non poté evitare di essere a sua volta perplessa, non riuscendo a comprendere se quello fosse un trucco proposto dalla propria avversaria per attentare nuovamente alle loro vite oppure se vi fosse del vero in simile comportamento. Ma gli occhi della giovane si dimostrarono in ciò tremendamente sinceri, concedendole vista su un animo completamente diverso da quello che, precedentemente, aveva avuto modo di affrontare.

“Non abbiate timori.” suggerì loro la fenice, muovendosi leggera fino al punto in cui il diadema era rotolato nel lasciare il capo della sua ultima detentrice “Il pericolo rappresentato da questa corona non graverà più in questa realtà almeno per qualche secolo… almeno fino a quando un nuovo manipolo di sciocchi non oserà prevaricare le difese poste a sua sorveglianza nei tempi passati.”
« Non credi di doverci qualche spiegazione?! » richiese Heska, ancora rivolgendosi senza timori alla loro divina controparte, abbassando la propria spada nell’evidenza di come Carsa non rappresentasse più un pericolo « Cosa è accaduto?! Perché continui a parlare di realtà quasi ne esistessero diverse… »
“E’ un discorso troppo complesso per le vostre capacità cognitive, per la vostra conoscenza del Creato.” rispose, senza alcun intento denigratorio in quelle parole “Sappi solo che quella vinta oggi è stata una semplice battaglia, dal risultato prevedibile, laddove d’amore e non d’odio erano i sentimenti di colei che in sé aveva accolto il retaggio di chi conoscete con il nome di regina Anmel.”
“Il lato più oscuro del potere, e di simile sentimento, ne avevano traviato le azioni, i piani, ma non avevano concesso all’Oscura Mietitrice una forza necessaria a contrastarmi.” continuò a spiegare, dimostrando una chiara volontà di trasparenza nei confronti di tanto desiderio di comprensione, per quanto i concetti espressi si proponessero troppo semplificati per offrire un intendimento completo su quell’argomento “Purtroppo la guerra contro simile minaccia è ben lontana dal potersi considerare terminata: trent’anni fa Midda Bontor ha involontariamente infranto un sigillo ed ora, per lei, è giunto il tempo di affrontare le conseguenze di quanto occorso…”
« Ma hai appena detto che alcuna minaccia graverà su di noi per diversi secoli… » replicò la donna, ponendosi a difesa della sorella « Quale impegno potrebbe, in tal senso, esserle richiesto?! »
“Nel momento in cui si è sottratta alla propria stessa vita, al proprio mondo, Midda ha violato un antico ed universale equilibrio. Se non fosse avvenuto, tutto ciò che ora tu definisci quale realtà, tutto ciò che tu conosci quale tua vita, non sarebbe stato tale.” riprese la creatura, evidentemente sforzandosi nel tentare di trovare le parole migliori per esprimersi “Ho seguito con attenzione molteplici evoluzioni di simile scelta, illudendomi, forse, che l’ordine si sarebbe potuto ricostituire in maniera spontanea, anche senza un nuovo coinvolgimento da parte sua: purtroppo, però, a nessuno è dato di sottrarsi al proprio destino e senza una risoluzione drastica per questa realtà e per molte altre non vi sarà futuro…”
« Non capisco… » ammise Heska, sforzandosi di seguire il senso di quel discorso senza ottenere successo.
“Sarò più chiara.” le concesse la fenice “Devo riportare Midda Bontor nel tempo a cui appartiene, per offrirle la speranza di salvare se stessa ed il suo mondo…”