11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 18 aprile 2010

828


L'
unica occasione in cui, nel lungo corso della propria avventurosa esistenza, Midda Bontor aveva accettato di buon grado una condanna, fosse anche solo detentiva quale quella pur lì a lei addotta, era occorsa quando simile pena era stata da lei esplicitamente ricercata al fine di poter raggiungere un particolare carcere e delle informazioni celate in esso, nella figura di una persona lì rinchiusa poco prima di lei. In simile circostanza, ovviamente, non appena quanto da lei ricercato le si era presentato innanzi, sebbene, purtroppo, neppur soddisfacendola completamente, la Figlia di Marr'Mahew non aveva avuto ulteriori ragioni per restare sottomessa nel confronto con l'ergastolo imputatole e, in ciò, aveva tranquillamente deciso di violare la sicurezza di una fra le prigioni più inespugnabili della storia di tutta Kofreya, aggiungendo, in tal modo, anche quest'ulteriore impresa alla sua già ricca carriera. Semplicemente ridicola, in simile profilo, sarebbe quindi apparsa l'idea, l'ipotesi di vedersi privata della propria libertà per tre lunghi anni, restando isolata, fuori dal mondo e lontano da tutto ciò che per lei, comunque, era considerato vita, dalle proprie avventure, dalle proprie sfide al limite del possibile.
Probabilmente, per chiunque altro, il pensiero di tre anni di lavoro coatto all'interno di una miniera di sale sarebbe risultato ampiamente preferibile alla perdita di un braccio. Per lei, invece, né l'uno, né l'altro, sarebbero potuti essere accettabili, non ritrovando, dopotutto, una sostanziale differenza in tali alternative. Trentasei mesi, dodici stagioni, tre anni di vita perduti: la questione sarebbe potuta essere presentata in qualsiasi forma, sotto qualsiasi profilo, ma dal suo punto di vista si sarebbe comunque riservata alcun concreto scarto rispetto all'idea di un secondo arto sottrattole con violenza, con crudeltà, in una condanna, oltretutto, non più giusta, non più legittima di quella che, più di un decennio prima, le aveva visto negato il braccio destro, vittima, ora come allora, di una giustizia sommaria, disinteressata a individuare reali colpevoli e bramosa, semplicemente, di un'ostia da immolare sull'altare della legge. Naturalmente, al di là di tali considerazioni di carattere personale, ella non avrebbe potuto, in quel particolare contesto, preferire una nuova mutilazione rispetto a una condanna ai lavori forzati, nella ferma consapevolezza di come mai un centinaio di libbre di catene preposte a limitarne i movimenti, o la presenza di terribili bestie mitologiche destinate alla sua sorveglianza, sarebbero state in grado di impedirne l'ormai inevitabile evasione, la fuga dal destino così prescrittole. La sua latitanza, sino a quel momento posticipata, avrebbe così dovuto essere giudicata quale una semplice questione di tempo, un appuntamento certo innanzi al quale ella non avrebbe ovviato, non appena le fosse stata concessa la pur minima occasione in tal senso.
Tuttavia impossibile sarebbe invero stato anche per la donna guerriero, privata ancora una volta dei propri abiti e condotta nuovamente alla propria cella, e lì posta in attesa della prima occasione utile a trasferirla alle miniere di sale, luogo della sua condanna, immaginare un'imprevista possibilità che il fato le avrebbe proposto in quella sera stessa, in concomitanza con la consegna della sua cena, se tale sarebbe potuta essere degnamente definita, nella figura della propria prima interlocutrice in quella città, la stessa guardia che, sino a quel momento, pur tanta mal sopportazione non aveva perduto occasione di dimostrare senza alcun tentativo di dissimulazione nei suoi stessi riguardi.

« Mangia. »

Una semplice parola, un esordio diretto e privo di particolare originalità, fu quello che la nuova giunta volle riservarsi, nell'introdurre la propria presenza e nel presentare innanzi allo sguardo della prigioniera la consueta ciotola di minestra di farro, unico pasto, in effetti, riservatole sino a quel momento all'interno di quelle mura. Suo malgrado, sollevando lo sguardo verso l'altra, la donna guerriero non poté negare come, in assenza di quel riferimento nel suo consueto accento y'shalfico, ella non sarebbe probabilmente riuscita, né avrebbe avuto ragioni di sforzarsi in simile direzione, a cogliere l'identità della propria inattesa ospite, là dove, nonostante il rapporto verbale intrattenuto con lei già in due diverse occasioni, ella non si era mai, effettivamente, interessata a rilevare, a cogliere particolari dettagli propri e distintivi della presenza di quella particolare figura rispetto a quella di una qualsiasi altra guardia shar'tiagha, limitandosi alla superficialità propria di quegli aspetti comuni a qualsiasi altro suo collega. Volendo ora, in evidente conseguenza di quella visita fuori dall'ordinario, concederle una maggiore possibilità di attenzione, nonostante la semioscurità imperante nello stretto e soffocante ambiente proprio di quella cella, ella ebbe così modo di censire, rapidamente, alcune caratteristiche prima ignorate e, in effetti, tutt'altro che banalmente condivise con qualsiasi altra presenza, qualsiasi altra guardia presentatasi innanzi a lei sino a quel momento.
All'attenzione della propria osservatrice, in effetti, la donna shar'tiagha non avrebbe potuto celare, neanche volendo, diversi insoliti particolari nel confronto con i canoni tipici del popolo eletto, primi fra tutti forme decisamente più morbide, tanto nel proprio stesso volto, quanto, in generale, nel suo intero corpo. Là dove i suoi zigomi sarebbero dovuti apparire più severi, più spigolosi, le guancie, e la sua intera struttura cranica, invece, si impegnavano a mostrare una interessante dolcezza, una naturale rotondità tutt'altro che disprezzabile. Là dove le sue labbra sarebbero dovute essere più sottili, più secche, esse, altresì, non avrebbero potuto nascondere una più attraente carnosità, equivalente, se non addirittura superiore, a quella propria della stessa mercenaria, che avrebbe invitato qualsiasi uomo a rivolgere loro il proprio interesse. Là dove il suo naso avrebbe dovuto risultare più sottile e appuntito, esso non avrebbe potuto rifiutare di concedersi, al contrario, più ampio, tanto nel setto, quanto nella sua punta, appena schiacciata. E, ancora, là dove il suo corpo avrebbe dovuto riservarsi proporzioni più longilinee, una discreta generosità all'altezza dei seni e dei fianchi, ammorbidivano in maniera estremamente piacevole, per qualsiasi osservatore maschile, la sagoma di quella donna. E là dove le sue spalle, le sue braccia e anche le sue gambe, avrebbero dovuto concedersi una muscolatura meno evidente, meno appariscente, esse non facevano mistero di un naturale e innato vigore normalmente sconosciuto agli shar'tiaghi di sangue puro e più prossimi a quelli di una stirpe di cacciatori nomadi, formati in simili proporzioni dalla propria stessa vita, dalle esigenze proprie della loro medesima sopravvivenza. Simili dettagli, prima neppur presi in esame da parte della Figlia di Marr'Mahew, e ora, invece, accomunati anche a due particolari occhi verdi, appena innalzati nei propri angoli esterni, non avrebbero potuto negare a tale immagine, a quella figura, una chiara presenza di sangue misto, in una misura tale da creare naturale, inattesa e, a dir poco paradossale, connessione, nella mente della sua stessa osservatrice, fra quella guardia e la famiglia del proprio amante abbandonato, che, nel proprio ramo materno, in effetti, non aveva mai cercato di celare la presenza di origini non shar'tiaghe, prossime ai popoli dei regni del deserto più a nord, e con un'influenza derivante, addirittura, dal continente orientale di Hyn.

« Ras’Meen?! » sussurrò la donna guerriero, nominando in ciò l'anziana madre del proprio compagno ora lontano, conscia di come, evidentemente, quella giovane guardia non sarebbe potuta essere colei similmente chiamata in causa, ma non potendo mancare di sottolineare, in tale implicita richiesta, una evidente somiglianza fra quelle due figure femminili.
« Il mio nome è Ras’Jehr. » negò ella, scuotendo appena il proprio capo e insistendo nel tendere verso la prigioniera la ciotola con la sua cena, offerta ma non ancora da lei accettata « Ras'Meen è il nome di una sorella… cugina, come dite voi, di mio padre. » rivelò, subito dopo, in una sorprendente denuncia, tale da costringere la sua interlocutrice a strabuzzare gli occhi in una reazione naturale nel confronto con tale, inaspettata e improvvisa manifestazione di parentela.
« Che cosa?! » riuscì a esclamare la mercenaria, dopo un istante di necessaria laconicità, di improrogabile e stupito silenzio in conseguenza della sorpresa riservatale « Quindi… tu sai…? » domandò, in riferimento agli eventi occorsi poche settimane prima, ragione primaria del solitario peregrinare che l'aveva condotta, alfine, a quella stessa grande città.
« Invero ti ho riconosciuta subito, sin da quando ti abbiamo raggiunta in quel vicolo. » confermò la guardia, storcendo le labbra verso il basso « Difficile, dopotutto, sarebbe stato ignorare l'evidenza offerta dal tuo particolare aspetto fisico, tale da renderti estremamente individuabile entro queste terre nonostante la presenza di molti altri stranieri tuoi pari… »

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