11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 27 dicembre 2010

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C
aratteristica fondamentale propria dell'umanità, sicuramente in conseguenza dell'inviolabile natura mortale intrinseca di tale condizione, era da sempre stata, e per sempre sarebbe sicuramente rimasta, l'attitudine a ricorrere a termini particolarmente enfatici per sottolineare momenti di particolare gioia o di incredibile dolore, di straordinaria eccitazione o di disturbante angoscia, di lieta fortuna o di oscena sventura, e molto altro ancora, indicando ognuna di tali occasioni quale apice, in positivo o in negativo, della propria intera esistenza, traguardo tanto elevato, o tanto profondo, al quale, con azzardata sicurezza, sol qual assurdo inevitabilmente appare il pensiero di poter ancora giungere: questo, per lo meno, sino alla nuova e successiva occasione, purtroppo o in gloria agli dei, capace di dimostrarsi ancora peggiore, o migliore, nel confronto con la precedente, al punto tale da scatenare, in ciò, quelle identiche, e pur rinnovate, prese di posizioni ammantate di un'assoluta, e pur assurda, certezza dell'imprevedibile, e inimmaginabile, ultimo risultato raggiunto, tanto nel bene, quanto nel male.
Involontariamente rispettoso di tale caratteristica fondamentale della stessa umanità, alla quale anch'egli apparteneva e sarebbe sempre appartenuto, sin dal momento del proprio concepimento fino al quello della propria morte, il giovane B'Reluc, figlio di P'Reluc, nella propria pur acerba esistenza, si era concesso l'arroganza di poter affermare in fin troppe occasioni, in molteplici occasioni, di aver raggiunto senza la benché minima ombra di dubbio, possibilità di errore, il momento peggiore della propria vita, in una parabola discendente che mai, egli era certo, o forse semplicemente e inconsciamente speranzoso, avrebbe mai potuto spingersi ancor più in basso, a limiti peggiori rispetto a quelli così già resi propri. Purtroppo per lui, i suoi quattordici anni, per quanto risultato incredibile non concesso a chiunque, non avrebbero potuto essere considerati sufficienti, nella propria estensione temporale, per assicurargli quella particolare esperienza, quella necessaria maturità per poter riuscire a distinguere con precisione quale effettivo evento avrebbe potuto essere indicato, riconosciuto, addirittura glorificato a modo suo, qual il peggiore della sua intera esistenza.
In ciò, ove anche egli aveva sinceramente creduto che mai nulla di peggio rispetto alla morte di suo padre, avvenuta quattro anni prima, avrebbe potuto caratterizzare la sua vita, nel negargli con repentina violenza quel mondo pur sufficientemente gioioso, lieto, infantile nel quale aveva sino ad allora vissuto, per costringerlo ad assumersi un improponibile ruolo da capofamiglia, da patriarca per i suoi parenti, ponendosi a presunta protezione di sua madre e a sostegno dei suoi sei, fra maschi e femmine, fratelli e sorelle minori, neppur due anni dopo tanta negativa considerazione in B'Reluc era stata già sostituita da un altro ricordo, da un altro dolore e un'altra angoscia, ritenuta qual nuovo traguardo nel confronto con il suo intimo, senza, in questo, pur voler mancare di rispetto alla memoria del padre: quello derivante dalla tremenda delusione d'amore impostagli con incredibile crudeltà dalla dolce Bal'Ev. Per quanto forse stolida, probabilmente egoista, simile vicissitudine sarebbe potuta apparire soprattutto laddove posta in paragone con la tragedia derivante dalla perdita di un genitore, nel confronto con lo spirito e il cuore del ragazzo, e con il suo corpo e la sua mente inevitabilmente sconvolte dagli effetti della pubertà, l'immagine a lui offerta dall'ironico sorriso della fanciulla a cui, con tanta sincerità, onestà di sentimenti e di intenti, si era proposto, si era votato, nel comunicargli un netto rifiuto a qualsiasi pur vaga speranza che in un qualsivoglia ipotetico futuro vi sarebbe mai potuto essere qualcosa fra loro, non avrebbe potuto essere accolta con serenità, nel ferirlo, nel proprio intimo e, anche, nel proprio orgoglio, con più violenza di quanto mai chiunque avrebbe potuto immaginare. Legittimamente o no, pertanto, l'incredibile e spiacevole onore del ruolo di momento peggiore dell'esistenza di quell'ancor ragazzo, due anni prima, era stato necessariamente trasferito dalla memoria della morte del padre al ricordo del primo, sadico rifiuto in campo sentimentale, lasciandolo illudere che mai nulla avrebbe potuto ancor competere con tale evento.
Così, in effetti, era stato, nell'assurdità propria delle logiche caratteristiche del periodo proprio della pubertà, incapaci a mostrare la vita sotto un adeguato metro di valutazione e, ciò nonostante, se non proprio in conseguenza di tale limite, particolarmente capaci di torturarne i propri sventurati protagonisti. E ancora, in verità, sarebbe continuato a essere per molto e molto tempo… se, all'alba di una nuova giornata di fine estate di due anni dopo, lo stesso, ancor imberbe, B'Reluc non si fosse ritrovato appeso a testa in giù sopra un pozzo ricolmo di dipse.

« Mio caro ragazzo… » prese nuovamente parola verso di lui lo stesso albino giudicato caporione del drappello di manigoldi responsabili per la sua attuale situazione, per questo inatteso, e tutt'altro che sperato, nuovo e negativo risultato raggiunto, probabilmente l'ultimo che mai avrebbe, effettivamente, caratterizzato la sua esistenza, nell'assenza di una qualche speranza di futuro conseguente a tutto quello « … io ho l'impressione che tu non stia realmente apprezzando la gravità della tua attuale posizione. Correggimi se erro, ma se tu riuscissi effettivamente a comprendere quale pericolo incomba in questo momento su di te e sulle tue speranze di poter, un giorno lontano, divenire uomo, credo proprio che sarebbe tua appassionata prerogativa impegnarti a offrire soddisfazione alle nostre questioni. »

Lo sventurato B'Reluc, per amor di cronaca, non solo stava realmente apprezzando la gravità della propria attuale posizione, riuscendo effettivamente a comprendere quale pericolo incombesse in quel momento su di sé, ma, nel proprio intimo, era sì terrorizzato dall'oscena promessa di morte così riservatagli da essere a malapena in grado di mantenersi ancora vagamente padrone dei propri sensi, del proprio intelletto, dove ben volentieri il suo cuore avrebbe sospinto la sua mente a rinnegare qualsiasi barlume di senno e, in ciò, a cedere a un'assoluta, isterica e caotica follia, tale da concedergli, se non speranza di libertà, quantomeno occasione di non soffrire ulteriormente nel confronto con quell'assurda tragedia di cui si stava ponendo involontario protagonista.
Una reazione, la sua, che a posteriori, nell'ipotesi tutt'altro che ovvia di poter superare quell'infausto momento, egli stesso avrebbe dovuto giudicare quale assolutamente emotiva ancor prima che fisica o razionale, dal momento in cui, come qualsiasi abitante del regno di Urashia e, in particolare, di quella regione a ridosso di Gorthia e dei monti Rou'Farth, il ragazzo era comunque e assolutamente consapevole dell'incredibile letale essenza caratteristica delle dipse, tale da potergli assicurare, in quel momento, la morte più dolce, delicata e indolore a cui mai avrebbe potuto ambire. Piccoli e tozzi serpenti, privi della grazia propria della maggior parte di quel genere di rettili, le dipse erano ben note, addirittura famigerate, in tutto il territorio, per l'incredibile pregio del proprio veleno, tanto efficace da offrire la morte a chi da esse offeso ancor prima di poter maturare qualsivoglia coscienza sull'occorrenza del morso stesso: ove il semplice, fugace contatto con gli affilati e sottili denti di una di quelle ineleganti creature avrebbe potuto abbattere un colossale cavallo da traino senza neppur porlo in agitazione, lasciandolo semplicemente e istantaneamente crollare al suolo privo di qualsiasi cognizione sulla propria stessa fine, alcuna ragione di preoccupazione sarebbe allora dovuta essere propria di quel ragazzino, di quel fanciullo persino troppo magro, emaciato nelle proprie forme e proporzioni, al punto tale da rendere assurdo il pensiero, l'idea, che su quelle sue spalle potesse riuscire a essere sostenuto il peso di un'intera famiglia, qual pur oggettivamente era ormai da quattro anni. Malgrado la paradossale sicurezza a lui riservata da un tale pensiero, da una simile comune convinzione, ovviamente e necessariamente priva di possibilità di riscontro diretto, nell'assenza di una qualsiasi testimonianza di prima mano a tal riguardo, il giovane non sarebbe mai potuto restare tuttavia indifferente di fronte alla minaccia così a lui imposta, dal momento in cui, al pari della maggior parte dei membri del genere umano, anch'egli rifuggiva istintivamente l'idea della morte in quanto tale, quale quella della più tremenda sventura immaginabile e non, più quietamente, di un appuntamento irrinunciabile a cui, presto o tardi, chiunque sarebbe stato costretto a rispettare.
Per simile ragione, B'Reluc non avrebbe potuto evitare di invocare la benevolenza della propria dea prediletta, la materna e protettiva Heer, supplicando il suo intervento in proprio sostegno, in proprio soccorso. E, proprio in conseguenza di tali preghiere, egli non avrebbe potuto evitare di ritrovarsi a dir poco attonito, sorpreso, meravigliato, nell'inatteso confronto con chi, lì sopraggiunta, ai suoi occhi apparve, almeno in un primo istante, pressoché identica alla stessa dea, al punto tale, con le proprie generose forme, con l'abbondanza dei propri seni e la pienezza dei propri fianchi, da poter esser considerata incarnazione della stessa divinità.

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