11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 27 maggio 2013

1953


E quand’anche il biondo intravide, prima, e vide, subito dopo, il mondo al di fuori di quella finestra, soltanto chiare, trasparenti, evidenti e, non di meno, assurde e grottesche, apparvero le ragioni alla base di ogni singola parola scandita dal proprio fratello, dal proprio amico di sempre, accanto al quale aveva vissuto un numero ormai incalcolabile di avventure, ma accanto al quale, in quelle ultime ore, aveva anche palesemente perduto la possibilità di vivere l’ennesima disfida, una battaglia nell’indifferenza della quale sarebbe palesemente stato impossibile permanere, e nell’indifferenza della quale, purtroppo e altresì, erano entrambi restati, inconsapevoli del massacro… della mattanza che, là fuori, aveva avuto occasione di consumarsi in loro assenza. E sol qual mattanza, invero, avrebbe avuto ragione di descriversi tale terribile spettacolo, dal momento in cui improbabile sarebbe stato individuare un termine migliore per definire l’orrore della morte per così come ebbe occasione di presentarsi innanzi ai loro occhi, nell’accumulo di dozzine di corpi morti in misura tale da rendere addirittura difficile riuscire a cogliere una qualsivoglia traccia di terreno lì sotto; terreno che, apparentemente, non tanto per la torrenziale pioggia riversatasi dal cielo, quanto e piuttosto per il sangue da quegli stessi sacrifici spillato, era allora stato trasformato in un osceno pantano, una fangosa palude rossastra, sulla quale non semplice, non banale, sarebbe stato riuscire ad avventurarsi, a sospingersi, senza provare un naturale ribrezzo, uno spontaneo disgusto per quanto, in ciò, non troppo velatamente rappresentato.
In quanto mercenari, e qual tali professionisti della guerra ancor prima che avventurieri, quali avevano iniziato obiettivamente a essere soltanto in conseguenza di un certo ascendente esercitato su entrambi dal fascino della stessa Figlia di Marr’Mahew; Howe e Be’Wahr avevano già avuto trascorse occasioni, soprattutto negli anni della propria fanciullezza, di porsi a confronto con gli orrori propri di un campo di battaglia, con l’indescrivibile spettacolo che alcun canto e alcuna cronaca, alcuna ballata e alcun racconto, sarebbero mai stati capaci di riportare all’attenzione di coloro che mai, con ciò, avevano avuto occasione di confrontarsi, fosse anche, e semplicemente, nel fetore derivante dal sangue, dalle feci, dalle urine e, più in generale, dalla decomposizione conseguente allo scontro fra due eserciti, che nulla di epico, che nulla di leggendario, che nulla di straordinario avrebbe mai potuto vantare. Ciò nonostante, al di là della loro passata esperienza innanzi a un tanto truce e disgustoso genere di immagini, di scenari, entrambi non poterono ovviare a un momento di sincero sconvolgimento lì posti a confronto con tutto quello, nell’evidenza di quanto comunque diverso sarebbe stato vivere simile orrore o, soltanto, porsi quali passivi spettatori delle conseguenze dello stesso, senza in ciò aver avuto alcun ruolo. Perché laddove la consapevolezza che ogni stilla di sangue versato, così come ogni scroscio di feci e urine puntualmente riversatesi al suolo a ogni nuova morte, quasi gli dei non avrebbero potuto gradire accogliere alla propria attenzione, al proprio cospetto, corpi in tal modo impuri, avrebbe rappresentato qualche istante in più per se stessi conquistato, rendendo tutto ciò non soltanto sopportabile ma, addirittura e crudelmente, gradevole; l’assenza di simile contesto a margine, di tale giustificante condizione di contorno, non avrebbe potuto evitare di lasciar trasparire tutta l’oscenità propria di quel massacro, spronando un sincero rifiuto non solo per lo stesso ma, per estensione, anche per la guerra in senso più amplio.
A permettere loro, tuttavia, di superare il trauma intrinseco in tutto ciò, fu un pensiero ancor più violento e più sgradevole, qual solo avrebbe potuto essere quello di poter cogliere, in tanta morte, anche forme a loro note, volti e corpi di loro amici, di loro compagni che, nella propria involontaria indifferenza, si sarebbero in tal modo resi ingiustificabilmente colpevoli di aver lasciato morire senza neppur ipotizzare di aiutare, di sostenere, di difendere. Fortunatamente, nel terrore derivante da tal pensiero, da simile ipotesi, venne loro concessa occasione di positiva speranza nel verificare quanto, nell’annovero di coloro che lì erano trapassati, non avrebbero, almeno in apparenza, potuto essere riconosciute sagome umane, ma soltanto mostruosi corpi di grossi rettili dalle scaglie contraddistinte da tonalità quasi metalliche, che, sotto la luce di quel sole alto nel cielo, rilucevano in maniera addirittura piacevole, malgrado tutto.

« … vedi… qualcuno dei nostri? » sussurrò Be’Wahr, dopo un lunghissimo, e necessario, momento di silenzio, utile a contemplare tutto ciò e, soprattutto, a elaborare la non semplice immagine lì loro presentata, in ogni propria implicazione.
« No… » negò Howe, non riuscendo a ovviare un momento di esitazione prima di formulare quella pur semplice risposta, nell’inevitabile timore di prendere voce e, subito dopo, ritrovarsi a essere smentito da qualche tragica evidenza « Non vedo corpi umani lì fuori… solo quegli… esseri, qualunque cosa essi siano stati in vita. » soggiunse, sincero, nel non aver mai incrociato prima d’allora un ippocampo e, in ciò, nel non essere in grado di riconoscerne uno… o una qualche dozzina, qual quella lì loro proposta.
« E questo è bene… non è vero?! » ricercò conferma il biondo, dimostrandosi allora bramoso di rassicurazioni di sorta da parte del proprio compare, quasi un bambino posto innanzi a una storia eccessivamente spiacevole e, per questo, invocante l’intervento di un proprio genitore, o, anche e soltanto, di un fratello maggiore, per ritrovare la serenità perduta, per riconquistare quella pace negatagli.
« … speriamo che lo sia. » confermò lo shar’tiagho, purtroppo incapace a offrire tutta la sicurezza dall’altro domandatagli, benché sarebbe dovuto essere riconosciuto qual il primo allor bramoso di ritenere la questione risolta nella maniera più semplice e indolore possibile, considerando la vittoria dei propri compagni qual banale, qual ovvia e scontata, tale da rendere persino ridicolo anche solo sollevarne il dubbio.

Rimasti soli all’interno dell’abitazione nella quale avevano trovato ospitalità nel corso di quelle ultime ore, speranzosamente abbandonati dai legittimi proprietari di quella casa non in conseguenza di tragiche motivazioni quanto e piuttosto semplicemente perché immersi in maniera tanto profonda da risultare completamente sordi al mondo esterno, qual soltanto avrebbero dovuto essere stati per giustificare quanto accaduto; i due fratelli mercenari non avrebbero potuto rendere propria neppure la rassicurazione derivante dal confronto con terzi, con una qualche testimonianza esterna che avrebbe potuto renderli edotti su quanto occorso e, magari, su come e perché essi fossero rimasti tanto, incomprensibilmente, rapiti in quello stato di sonno addirittura malato. E, forse, ipotizzare un qualche malessere, dietro a tutto ciò, sarebbe stata una soluzione addirittura gradevole, nell’escludere, in tal modo, prospettive decisamente peggiori.
In ciò, l’unica occasione di maturare coscienza nel merito di quanto avvenuto, di quanto entrambi si erano inspiegabilmente perduti, sarebbe stata quella di uscire da lì, dalla protezione che era stata loro riservata da quelle mura irregolari, per investigare in prima persona sulle dinamiche occorse e, soprattutto, sull’effettivo stato di salute dei loro compagni, dei loro amici, nella speranza di non doversi confrontare con qualche dolorosa scoperta, con qualche sgradevole verità. Così, senza neppure abbisognare reciprocamente di una singola, ulteriore voce a esplicitare quella sola e naturale scelta che avrebbero dovuto allora abbracciare, Howe e Be’Wahr si avviarono, l’uno al fianco dell’altro, verso la soglia della dimora, prestando ben attenzione a mantenere accanto a sé le proprie armi, laddove, a dispetto di ogni evidenza, là fuori avrebbe potuto essere loro destinata anche una qualche occasione di letale trappola, tale da aggiungere anche i loro due cadaveri al già numeroso censimento di morte che lì, presto, avrebbe dovuto essere compiuto, per comprendere quante carcasse dover offrire in pasto alle fiamme.
Non una trappola, comunque, fu loro riservata superata la porta d’ingresso e ritrovata occasione di contatto con il mondo circostante, quanto, e piuttosto, un’assolutamente piacevole occasione di rasserenamento, qual solo poté essere considerata la possibilità loro fornita di essere sorpresi da una voce indubbiamente nota, e nell’allegra intonazione della quale, in lode agli dei, avrebbero potuto escludere l’eventualità di un qualche lutto occorso in loro assenza…

« Howe… Be’Wahr… state entrambi bene! » asserì Camne Marge, in quella che mai avrebbe potuto essere confusa qual una domanda, un interrogativo, nel cogliere, immediatamente, l’evidenza offerta dall’assenza, sui loro corpi, di ferite evidenti.


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