11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 13 luglio 2013

Speciale Duemila

NOTA INTRODUTTIVA: Il seguente episodio, autoconclusivo, ha da considerarsi quale un evento speciale estraneo alla consueta continuità narrativa della serie e concepito nella sola volontà di festeggiare il raggiungimento di un traguardo importante come quello rappresentato dal duemillesimo episodio, oggi pubblicato.  


… e giunse il giorno.
Giunse il giorno in cui, osservandosi allo specchio, ella si accorse di essere troppo vecchia, più di quanto non avrebbe mai potuto ambire a divenire e, forse, più di quanto non avesse mai desiderato, effettivamente, divenire. Una vecchiaia che, proprio malgrado, non avrebbe dovuto essere semplicemente minimizzata a una questione d’età, che non avrebbe dovuto essere banalizzata qual un mero conteggio delle stagioni trascorse, quanto la consapevolezza della vita vissuta, delle esperienze, delle avventure affrontate.

Io che ho doppiato tre volte Capo Horn
e ho navigato sette volte i sette mari
e ho visto mostri ed animali rari,
l’anfesibena, le sirene, l’unicorno.


Quegli occhi riflessi nello specchio, sempre uguali a se stessi, sempre contraddistinti dal gelido colore proprio del ghiaccio, quasi a cercare una concorrenza con il bianco dei capelli tornati a ricadere lunghi sulle sue spalle, avevano visto molte, addirittura troppe cose, più di quanto qualunque uomo o donna mortale avrebbe mai dovuto bramare di contemplare nel corso della propria esistenza.
Quegli occhi, i suoi occhi, avevano ammirato ogni genere di creature appartenenti al suo mondo, a ogni angolo del suo mondo, e non solo: dalle folli chimere, incarnazione d’ogni peggior incubo avrebbe mai potuto essere estratto dalle profondità dell’animo umano, ai tifoni, colossali e crudeli, quasi null’altro al di fuori della violenza avrebbe mai potuto contraddistinguere la loro esistenza; dagli ippocampi, assetati di sangue, affamati di carne, e quasi invincibili, ai dragoni di mare, fiere e pericolose bestie retaggio di un’epoca sempre più distante, ormai morente, e pur contraddistinte da una forza di volontà ancor indomita e indomabile; dai leviatani della cinta di Leeborth, enormi e pur straordinariamente agili, nel loro guizzare a cavallo delle radiazioni cosmiche, ai behemoth del pianeta Eore, i soli innanzi ai quali alcun’arma creata da mortale avrebbe mai potuto imporre danno.
E quegli occhi, pur impressionati in maniera indelebile da ogni singola immagine della quale ella era stata testimone, fra dei morenti e interi mondi distrutti, erano ormai stanchi.
… ella era stanca.

Io che tornavo fiero ad ogni porto
dopo una lotta, dopo un arrembaggio,
non son più quello e non ho più il coraggio
di veleggiare su un vascello morto.


Quel corpo riflesso nello specchio, un tempo sempre allenato, sempre pronto a qualunque sfida la sorte e la sua brama d’avventura le avrebbero offerto, era stato ormai abbandonato dall’incredibile forza, dalla  straordinaria energia che l’aveva un tempo contraddistinto, offrendosi coperto più da rughe che da cicatrici, benché molte, addirittura troppe, fossero state le ferite che aveva subito nel corso della propria esistenza.
Quel corpo, il suo corpo, era stato al centro d’ogni genere di sfide, d’ogni battaglia, d’ogni guerra del suo mondo, in ogni angolo del suo mondo, e non solo: dalla palude di Grykoo, con la sua negromantica maledizione che alcuno avrebbe mai lasciato sopravvivere al proprio abbraccio, alla Terra di Nessuno, con la sua aria avvelenata, con il suo terreno incandescente, che non maggiori prospettive avrebbe promesso; dai deserti di Shar’Tiagh, con le sue sfingi e i suoi scorpioni giganti, non meno pericolosi di quanto già le rigide temperature e l’assenza d’acqua avrebbero potuto vantar d’essere, alle vette dei monti Rou’Farth, con i loro antichi misteri nascosti in ghiacci eterni; dalla nube di Naamia, che interi sistemi solari aveva avvolto e condannato a un tragico e orrendo fato, alle lande ghiacciate degli anelli del pianeta Sehto, con i propri segreti e le proprie minacce, retaggio di un’epoca tanto remota che alcuna leggenda ne avrebbe mai potuto riportar memoria, che alcun mito ne avrebbe mai potuto offrire suggestiva notizia.
E quel corpo, segnato in maniera impietosa da ogni singola pugna della quale ella era stata protagonista, era comunque sempre sopravvissuto, a tutto e a tutti, restando sempre il solo alfine ancora in piedi.
… ella era sola.

Dov’è la ciurma che mi accompagnava
e assecondava ogni ribalderia?
Dov'è la forza che ci circondava?
Ora si è spenta ormai, sparita via.


Tale era, quindi, la gloria del trionfatore. Quello era, pertanto, il premio riservato a colei che contro ogni nemico aveva sempre imposto il freddo metallo dagli azzurri riflessi della propria affilata lama. O, forse, miseramente, ciò era nulla di più, e nulla di meno, del prezzo da pagare per essere sopravvissuta a tutto e, peggio ancora, a tutti: la solitudine.
Nel corso degli anni, dei lustri, dei decenni, attorno a lei non erano, purtroppo, morti soltanto i suoi nemici, solamente i suoi avversari, semplicemente coloro che, per sua stessa mano, erano stati abbattuti, impietosamente e pur, sempre, senza reale entusiasmo, senza effettiva gioia, al pari di una sentenza necessaria; una condanna ineluttabile, emessa nel rispetto di quella sola legge di natura in ubbidienza alla quale simile morte sarebbe stata obbligata alternativa alla propria, alla prematura conclusione del proprio cammino, del proprio viaggio.
Nel corso di quegli stessi anni, accanto a ogni pira funebre eretta per i propri candidati assassini, ella era stata costretta a elevarne una anche per i propri amici, per i propri alleati, per i propri fratelli e le proprie sorelle, di vita ancor prima che di sangue, che, tragicamente, erano caduti. Talvolta perché accanto a lei nel cuore di una battaglia, impegnati a lottare per una causa comune, contro gli stessi antagonisti. Altre, per quanto ciò sarebbe stato ancora e sempre giudicato qual semplicemente inaccettabile, perché prossimi a lei nel suo cuore, nel suo animo, colpevoli soltanto di averla conosciuta e di essersi a lei affezionati. E coloro che, in grazia alla benevolenza degli dei, erano riusciti, malgrado ogni avversità, a superare ogni prova loro rivolta, a sopravvivere a ogni minaccia loro destinata nel corso del tempo, erano stati, comunque e alfine, costretti ad arrendersi, a chinare inermi il capo, innanzi al solo contro cui mai avrebbero potuto ribellarsi, all’unico in opposizione al quale alcuna arma o arringa li avrebbe mai potuti difendere, non realmente avversario e, ciò nonostante, neppure camerata: il tempo stesso.
… il tempo che tutto aveva svuotato.

Guardo le vele pendere afflosciate
con i cordami a penzolar nel vuoto,
che sbatton lenti contro le murate
con un moto continuo, senza scopo.


Vuota era, attorno a lei, la nave. Vuoto era, accanto a lei, il suo letto.
Anticipandola, uno alla volta, tutti se ne erano andati. Chi prima, chi dopo, tutti l’avevano lasciata. Tutti erano morti e avevano avuto possibilità di scoprire quale credo, quale fede, avesse sempre avuto ragione nel merito di chi o cosa, chiunque, avrebbe atteso nell’aldilà. E i loro corpi, i loro resti mortali, da lei, erano stati premurosamente accompagnati in un ultimo viaggio verso le fiamme di quel fuoco che solo avrebbe loro assicurato pace eterna, che solo avrebbe loro garantito di ovviare qualsiasi, spiacevole, ritorno, in ubbidienza agli empi capricci di un qualche negromante.
Soltanto colui che, forse sin dal momento del loro primo incontro, dall’istante stesso in cui i loro sguardi avevano avuto inedita occasione di incrociarsi, l’aveva amata tanto al punto da attenderla pazientemente per tre lunghi lustri, e al quale, alfine, ella non era più riuscita a negarsi, all’abbraccio del quale, dopo tanti timori, stupide paranoie, non era più riuscita a sottrarsi, donandogli il resto della propria esistenza, oltre al corpo desiderato, all’acuta mente, all’appassionato cuore e all’indomabile spirito; solamente il suo compagno, il suo amato e amante, il suo amico, confidente e complice, era riuscito a lottare più di chiunque altro contro l’inesorabile, per procrastinare quanto pur, alfine, sarebbe occorso. E se pur egli era stato l’ultimo ad arrendersi all’evidenza che, dopo tanta gioia e tanto dolore condivisi, tanti anni goduti e sofferti insieme, ogni singolo giorno con intensità straordinaria qual raramente altre coppie sarebbero state in grado di concedersi una sola volta in una vita intera, sarebbero stati costretti comunque a separarsi; il loro non sarebbe mai stato accettato, né dall’uno, né dall’altra, qual un addio, nell’essere riconosciuto, piuttosto, qual un arrivederci, in un tacito appuntamento al giorno in cui anch’ella si sarebbe presentata innanzi al giudizio degli dei, e, nuovamente, avrebbe potuto combattere per difendere il loro amore, dopo la morte così come in vita.
E nell’ospitare ormai solo lei, unico retaggio, vestigia, di un’epoca che presto sarebbe stata dimenticata, la goletta che in tante avventure li aveva accompagnati, per tutti loro sicura dimora in cui poter sempre trovare rifugio, appariva tristemente vuota, drammaticamente abbandonata alla propria sorte, al proprio fato, vittima delle maree e dei venti, senza guida e, peggio ancora, senza più meta.
… tutto inutile.

E vedo in aria un’insensata danza
di strani uccelli contro il cielo bigio
cantare un canto in questo mondo grigio,
un canto sordo ormai, senza speranza.


Tale era, quindi, quello per cui tanto aveva lottato. Quello era, pertanto, il premio riservato a colei che tanto sangue aveva versato, spillandolo dai corpi dei propri avversari così come, sovente, dal proprio. O, forse, miseramente, ciò era nulla di più, e nulla di meno, della condanna degli dei per quanto ella aveva osato compiere, per i confini che aveva osato superare, i divieti che aveva osato infrangere: l’inutilità.
L’inutilità che predominava in quel maledetto presente, in quel mondo rimasto senza ragione né significato, nel quale la deriva della nave null’altro avrebbe dovuto essere inteso che metafora della deriva del suo animo, della sua vita; era quanto di peggio avrebbe mai potuto immaginare, era un orrore superiore a qualunque altro avesse mai avuto occasione di affrontare, a qualunque ipotesi la sua più paranoica immaginazione avrebbe potuto concepire.
Perché in quel senso di inutilità, in quella percezione di solitudine e di vuoto, non soltanto il presente e il futuro sarebbero stati privati d’ogni senso, d’ogni identità, ma ancor peggio il suo intero passato, tutta la sua esistenza sin da quanto possedeva memoria. Un’esistenza nel corso della quale, giorno dopo giorno, sua illusione, sua speranza, era stata quella di potersi imporre sul fato, di poter piegare il destino ai propri voleri, ai propri desideri, senza mai chinare la testa innanzi ad alcuno, uomo o dio che egli fosse; mancando di comprendere, di concepire, tuttavia, quanto alfine la sorte sarebbe sempre stata in grado di imporsi su di lei, semplicemente attendendo con la pazienza del mite, con la temperanza del forte, non necessitando di maestosi successi o terribili fallimenti, fra i quali la sua esistenza l’aveva vista dividersi, nella ricerca dei primi e, talvolta, nella triste rassegnazione propria dei secondi.
… le sue, solo reali sconfitte.

E qui da solo penso al mio passato,
vado a ritroso e frugo la mia vita,
una saga smarrita ed infinita
di quel che ho fatto, di quello che è stato.


Tanto… troppo ella aveva perduto, per giungere a quello.
Il suo volto, sfregiato da un’orrida cicatrice longitudinale al suo occhio sinistro. Il suo braccio destro, amputato sotto al gomito e per più volte sostituito con protesi che pur mai avrebbero potuto sperare di competere con l’originale. Il suo cuore, con tutte le emozioni che si era negata di vivere, con tutto il piacere che si era proibita di concedersi nel timore del dolore che a esso avrebbe potuto seguire, e che, alfine e comunque, era seguito. La sua intera vita, in tutto ciò apparentemente votata a uno scopo vano, a un traguardo inesistente, a un successo vuoto, qual vuoto era rimasto il mondo attorno a lei.
Tanti… troppi ella aveva perduto, per giungere al dominio del nulla più assoluto e desolante, del quale in quel momento era signora, regina e imperatrice.
Sua madre. La sua sorella gemella. Il suo primo amore. E ancora molti, e molti altri nomi e volti si affollavano nella sua memoria, riemergendo fra ricordi terribilmente recenti ed altri più lontani, persi nel tempo e pur mai dimenticati, non dalla sua mente, non dal suo cuore, il quale, probabilmente, neppur nell’ora della propria morte, avrebbe alfine trovato ragione di smettere di sanguinare per ogni colpo inflittogli, per ogni sconfitta fisica e psicologica da lei subita, il prezzo delle quali era stato pagato con ognuna di quelle loro morti, lasciando emergere tutti i più sgradevoli limiti della sua fallibile natura umana: le sue mancanze, le sue inefficienze, le sue debolezze innanzi a una sorte ignota e, malgrado tutto, immutabile, a un fato beffardo e crudele che tanto di lei si era preso giuoco nel corso di una vita intera, nel lasciarle credere di poter essere plasmato, e pur mai piegato.
A cosa era valsa ogni sua sofferenza, ogni suo sacrificio e la morte di tutti coloro che, attorno a lei, le avevano donato la propria vita solo per permetterle di conquistare a quel traguardo finale?
… le sue, solo false vittorie.

Le verità non vere in cui credevo
scoppiavano spargendosi d’intorno,
ma altre ne avevo e giorno dopo giorno
se morivo più forte rinascevo.


Sola, in cima al mondo, ella era ascesa, conquistando in una sola vita più gloria, più onori, più fama di quanto chiunque avrebbe mai potuto sperare di rendere proprio riservandosi un’intera eternità. Sua l’uccisione di sirene e ippocampi, dragoni e anfesibene, tifoni e cerberi, e di qualunque altra creatura ostile avesse mai incontrato. Sua la sconfitta di angeli e demoni, di osceni mostri provenienti da empie dimensioni perdute e, persino, di un dio, minore, certo, e pur sempre un dio. Sua la conquista di interi regni, che ella avevano accolto qual propria unica condottiera nel riconoscerne il valore, i meriti e il carisma, desiderando condividerne la leggenda.
Sola ella si era arrampicata con la tempra di un guerriero, con la tenacia di mortale, e con la forza di una donna, lungo quella macabra scala eretta, in direzione della volta celeste, del sole e di tutte le stelle, legando saldamente insieme, una a una, le ossa dei propri antagonisti; ossa che, insieme alla carne e al sangue degli stessi, erano state offerte in sacrificio agli dei tutto, o forse, semplicemente, a se stessa, al proprio medesimo nome, non tanto nella ricerca di una benedizione per il proprio operato, quanto e piuttosto nel desiderio di affermare sopra a tutto e a tutti la propria autodeterminazione, quella libertà che mai avrebbe accettato le sarebbe potuta essere negata, non da alcuno nel Creato, non da alcuno fra i creatori.
Ma a cosa era valso ogni suo trionfo, ogni sua vittoria e la morte di tutti coloro che, attorno a lei, erano stati falciati dalla violenza dei suoi attacchi solo per concederle di conseguire quel triste obiettivo?
… il destino aveva alfine vinto.

E ora son solo e non ho più il conforto
di amici andati e sempre più mi assale
la noia a vuotar l’ultimo boccale
come un pensiero che mi si è ritorto.


Il destino. Il suo solo, unico e sempre presente avversario, l’esistenza del quale ella aveva sempre rifiutato, nel confronto con l’immutabilità del quale ella si era sempre schierata, aveva sempre lottato, compiendo addirittura l’impossibile per dimostrare la propria ragione, per sostenere le proprie tesi.
Il destino. Il solo, unico e sempre presente avversario contro il quale, in quel momento, tardivamente, ella si arrendeva ormai all’amara consapevolezza di aver sempre perduto, non potendo rendere qual propria, invero, alcuna benché minima possibilità di supremazia, alcuna pur ingenua prospettiva di vittoria.
Inutile era stato ogni suo sforzo, inutile era stato ogni suo sogno, inutile era stata ogni sua rinuncia, se non, tragicamente, a condurla sino a quel giorno.
A quel giorno infausto. A quel giorno infame. A quel giorno maledetto.
… quel giorno in cui, osservandosi allo specchio, ella si accorse di essere vecchia, stanca e sola.

Ma ancora farò vela e partirò
io da solo, e anche se sfinito,
la prua indirizzo verso l’infinito
che prima o poi, lo so, raggiungerò.


No, si ribellò nel profondo del proprio animo. No, riecheggiò nella sua mente. No, no, no, scandì ripetutamente ogni singolo battito del suo cuore. « No! » gridò, con tutta la forza rimasta al suo corpo.
Rabbiosa la ribellione, feroce la reazione, in opposizione non solo al destino, alla sorte, al fato, antichi avversari già noti, già conosciuti e affrontati; ma ancor più a se stessa, a chi, in quel momento, sola stava realmente impegnandosi al fine di scrivere per lei l’ultimo atto, la conclusione di una storia arbitrariamente riconosciuta qual ormai priva d’ulteriore valore, di altro da dire, da raccontare, da cantare. Ella che, dopo aver speso una vita intera per dimostrare quanto la propria tenacia e la propria determinazione avrebbero potuto piegare non solo il fato, ma anche gli dei tutti al rispetto della propria libertà; non avrebbe mai potuto perdonarsi quella resa finale, non avrebbe mai potuto giustificare, in fede, l’indolenza e l’ignavia nella quale si stava pigramente crogiolando, come un’amante appagata fra le braccia del proprio compagno.
No. Non avrebbe mai potuto perdonarsi, non avrebbe mai potuto giustificarsi, impietosa con la donna riflessa innanzi al suo sguardo, in quello specchio, ancor più di quanto non fosse stata con altri nel corso di tutta la sua intera esistenza, di tutta la sua lunga vita. Perché ella era un’avventuriera, un marinaio e una guerriera. Lo era sempre stata. Lo sarebbe sempre stata, fino all’ultimo dei suoi giorni, sino all’ultimo dei suoi respiri. E avrebbe dovuto riprendere a comportarsi qual tale, perché non era ancora morta.
… ella non era ancora morta!

L’Ultima Thule attende al Nord estremo,
regno di ghiaccio eterno, senza vita,
e lassù questa mia sarà finita
nel freddo dove tutti finiremo.


Ancora una volta meravigliosamente agile, ancora una volta soavemente coordinato, ancora una volta, e forse un’ultima volta, quel suo vecchio e stanco corpo si costrinse a ritrovare energia, si obbligò a muoversi, e a muoversi lesto sino alla coperta e, da lì, lungo tutta la goletta, per levare le ancore e per issare le vele, a opporsi con vigore all’immobilità entro la quale entrambe avrebbero potuto obliare la propria intera vita, il proprio solitario presente, il glorioso passato e, non di meno, il sempre incognito futuro. Un futuro che non era stato già scritto, che non era già stato definito, e che mai lo sarebbe stato sino a quando non fosse stata ella stessa a impugnare la penna per tratteggiare i caratteri con i quali la fine sarebbe stata segnata.
Ma, in quel giorno, ella non desiderava scrivere… non ancora.
Desiderava viaggiare. E viaggiare alla ricerca di quell’unica terra mai esplorata, di quel mare mai solcato e di quella battaglia mai combattuta... ovunque tutto ciò l’avrebbe attesa.
Un ultimo viaggio, un’ultima volta, avventuriera, marinaio e guerriera… allora e per sempre Midda Bontor.

L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo
si spegnerà per sempre ogni passione,
si perderà in un’ultima canzone
di me e della mia nave anche il ricordo.


NOTE DI COPYRIGHT: L'ultima Thule è copyright © di Francesco Guccini, sommo Cantastorie della musica italiana, le cui note e le cui parole hanno da sempre rieccheggiato nelle orecchie dell'autore di Midda's Chronicles, formandolo e, inevitabilmente, anche ispirandolo in quest'opera sin dal primo giorno di pubblicazione.
Tutti i diritti su L'ultima Thule hanno da intendersi di proprietà esclusiva della EMI Music Italy S.r.l..
L'utilizzo delle sue strofe nel corso di questo episodio speciale non desidera violare in alcun modo la proprietà di chi avente diritto, ma soltanto rendere omaggio al "Maestrone". Questo episodio speciale non sarà mai utilizzato a scopo di lucro, né la sua pubblicazione è affiliata o dipendente da eventuali editori.
Tutti i diritti su Midda e sull'universo a lei collegato restano ovviamente di proprietà esclusiva del rispettivo autore.



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