11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 27 gennaio 2014

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L’occasione propria derivante dal poter osservare Lys’sh in azione, è da ammettere senza recriminazione alcuna, avrebbe avuto a doversi considerare un’esperienza a dir poco straordinaria. Nell’incredibile connubio caratteristico della sua natura, quella fusione fra donna e rettile che, probabilmente, soltanto l’anno precedente avrei considerato sinonimo di mostro e, in ciò, da cacciare e da abbattere senza pietà alcuna, ella appariva allora e altresì al mio sguardo qual semplicemente magnifica, e, persino, estremamente più sensuale e seducente di quanto mai avrebbe potuto vantare essere qualunque altra donna umana da me mai conosciuta prima, benché, obiettivamente, nel corso della mia vita avessi sino ad allora avuto occasione di poter vantare amicizie e conoscenze con donne incredibilmente belle, al punto da non riuscire neppure a essere banalizzate quali semplici donne. E lo dico senza ipocrisia alcuna.
In effetti, prima di conoscere Lys’sh, e di poter iniziare ad apprezzarne la straordinaria unicità, difficilmente mi sarei immaginata di associare un’immagine di sensualità femminile a quella di un rettile, o, addirittura, di un serpente, riconoscendo in questi ultimi, al più, soltanto ragione d’orrore, di ribrezzo, di ritrosia per ataviche motivazioni, innato retaggio di timore e di sospetto nel confronto con creature così del tutto estranee alla natura umana, o, più, in generale, di qualunque altro animale, di qualunque altra bestia del Creato. Io stessa, da parte di coloro che hanno voluto tessere lodi attorno al mio nome e al mio incedere, sono sovente stata definita qual contraddistinta da un fare felino, accomunando, in maniera credo persino troppo generosa i miei movimenti a quelli dell’eleganza propria di tali creature dotate, obiettivamente, di un loro intrinseco e imprescindibile fascino, accompagnato, puntualmente, da una temibile, ferina aggressività che, obiettivamente, non avrebbe potuto dispiacermi immaginare qual mia propria, metafora priva d’ogni ambiguità di sorta in merito al mio carattere, al mio atteggiamento, al mio essere donna e guerriero. Egualmente, dovendo descrivere, a titolo esemplificativo, la mia nuova amica Duva Nebiria, caratterizzata, io credo, da una beltade sicuramente più oggettiva di quanto non avrebbe potuto essere mai stata la mia, di quanto io non avrei mai potuto essere in grado di vantare, nulla di diverso da un magnifico gatto dal manto bruno avrei potuto immaginare in associazione al meraviglioso spettacolo da lei offerto in ogni proprio gesto, in ogni proprio singolo passo, ritrovando in simile creatura, e non, di certo, in un serpente, una nobile immagine con la quale ritrarla. Ciò non di meno, al di là di tanto pregiudizio, di tanta ottusità da parte mia, vittima, mio malgrado, di quella medesima stolidità che ero da sempre stata solita criticare ai promotori di atteggiamenti e comportamenti discriminatori verso il prossimo; non soltanto ottusa, non soltanto stolida, avrei dovuto essere, allora, per negare l’evidenza palese di quanto presentatomi innanzi, ma, addirittura e fondamentalmente cieca… perché soltanto ove privata dello sguardo, e forse neppure allora, ci si sarebbe potuti permettere di ignorare l’incanto soave offerto dall’ofidiana in conseguenza al proprio semplice essere, esistere, respirare e vivere.
A rendere, poi, tanta eleganza qual prossima a potersi considerare suprema, in effetti, avrebbe dovuto essere riconosciuto come essa non avrebbe avuto a doversi ritenere qual fine a se stessa, non avrebbe avuto a doversi giudicare qual dispendio gratuito di straordinarie capacità fisiche, quanto e piuttosto qual applicata, allora, in tale contesto, in simile frangente, a una prerogativa non di meno unica, qual quella di riuscire ad avanzare, all’interno di quel luogo, di quell’edificio, così come in ogni altro ambiente, ammantandosi in un silenzio, in una discrezione tale per cui neppure nel conservarne, ben presente, l’immagine innanzi allo sguardo, avrei potuto realmente dirmi certa della sua presenza innanzi a me, in tutto ciò più effimera, più evanescente di ogni spettro con cui potessi aver avuto trascorsa occasione di contatto. E se ritenete che, in questa mia testimonianza, possa star cedendo ora all’idea di esagerare, di concedere eccessiva generosità di giudizio alla mia compagna e amica, vi possa essere d’aiuto l’idea di oltre una dozzina di occasioni nel corso delle quali, in quel nostro costante progredire verso i piani superiori, ella fu costretta a spianarmi la strada, ad aprirmi il cammino, non tanto aggredendo di sorpresa eventuali guardie, quanto e piuttosto permettendo anche alla sottoscritta, mio malgrado contraddistinta da un incedere meno impercettibile rispetto al suo, di oltrepassare diversi posti di blocco, e di oltrepassarli nel mentre in cui ella, già sospintasi oltre simili frontiere, si prodigò al fine di richiamare l’attenzione delle guardie altrove, verso diversi obiettivi, in tal senso giuocando, letteralmente, con loro senza mai, ciò non di meno, esporsi realmente al rischio di poter essere non tanto catturata, ma, obiettivamente, neppure individuata. Un avanzata, la nostra, a rallentare la quale avrei paradossalmente e spiacevolmente dovuto essere riconosciuta soltanto io… motivo per cui, in effetti, non potei alfine ovviare a maturare un certo imbarazzo, un certo spiacevole imbarazzo nel confronto con un concetto con il quale non mi sarei potuta considerare normalmente confidente. Al contrario…
Tale problema, se così si fosse voluto descrivere, avrebbe dovuto tuttavia essere considerato solo ed esclusivamente questione riferita alla sottoscritta, laddove, obiettivamente, al di là del mio orgoglio, al di là della mia presunzione, al di là del mio egocentrismo, tale dal volermi porre sempre al centro dell’attenzione anche quando, come allora, non necessario, l’effettivo successo della nostra missione non avrebbe dovuto prevedere un concreto intervento da parte mia, non avrebbe dovuto prendere in esame l’ipotesi nella quale la mia presenza, nel mio ruolo di capo della sicurezza, avrebbe avuto a doversi ritendere non tanto indispensabile, ma anche e soltanto utile, giacché, in tal caso, ci saremmo dovute spiacevolmente scontrare con l’evidenza di un fallimento… e con la necessità di correre ai ripari, a una soluzione d’emergenza. E proprio in quei termini, invero, avrei dovuto costringere a riconoscere me stessa: una soluzione d’emergenza, un piano disperato da porre in essere nel confronto con l’evidenza del fallimento di ogni altra possibile alternativa.
Ancora una volta, quindi e pertanto, avrei dovuto impormi di volgere piena fiducia ai miei alleati e, ancor più, avrei dovuto impormi di essere pronta a farmi da parte nel confronto con il loro operato, con la loro competenza, con la loro professionalità, accettando, difficile a dirsi, di non essere più l’unica protagonista di quella che mi ero abituata a considerare la storia della mia vita; nel dover riconoscere quanto, con la loro presenza nella mia esistenza e con la mia presenza nella loro, le nostre storie avrebbero avuto a doversi considerare irrimediabilmente intrecciate, mischiate, riunite, in un’unica opera collettiva, un’opera al centro della quale non sarebbe più stata, soltanto, la sensazionale Midda Bontor, ma anche l’incredibile Lys’sh, la pericolosa Duva, il saggio Lange e così via dicendo… sino a giungere, almeno desideravo ancora sperarlo, al giorno in cui in tale vicenda corale si sarebbe potuta aggiungere anche la voce di colui in compagnia del quale, in effetti, sola avrei dovuto, e voluto, essere, ma che, nel pormi così sciocca da pensare soltanto a me stessa, soltanto alle mie esigenze e alle mie idee, unicamente alla mia persona, avevo troppo superficialmente escluso, sino, alfine, apparentemente a perderlo. E a perderlo in termini tanto spiacevoli che non mi sarei potuta più considerare capace di ritrovarlo, benché, soprattutto nei primi giorni, nei primi tempi, tale ricongiungimento fosse stato ad parte mia ancor più banalmente considerato ineluttabile, rendendo, in tal modo, il mio amato Be’Sihl qual la prima vittima eccelsa di quella mia imperdonabile incapacità a fare giuoco di squadra.
In ubbidiente silenzio, pertanto, accompagnai Lys’sh all’interno del grattacielo, dietro di lei, insieme a lei, risalendo un numero a dir poco folle di gradini, laddove ricorrere ad altre soluzioni avrebbe avuto a doversi considerare, allora, del tutto interdetto in palese conseguenza alla necessità di non esporci ad alcun sistema di rilevazione; accogliendo ogni suoi singolo, tacito ordine e ottemperando puntualmente al fine di tradurlo in azioni concrete, in movimenti puntuali, in misura tale da ridurmi, né più né meno, al ruolo della pedina all’interno della partita a chaturaji che stavamo allora tanto intensamente giocando.
E quando ella mi ordinò di avanzare, io avanzai. Quando mi chiese di arrestarmi, io mi arrestai. Quando mi domandò di correre, io corsi. Senza mai, neppure una volta, esitare. Senza mai, neppure una volta, temporeggiare. Nella consapevolezza di quanto, comunque, il successo che lì stavamo cercando di ottenere sarebbe in ampia misura dipeso sostanzialmente dalla perfezione di un sincronismo temporale tanto perfetto tale per cui un solo battito di ciglia in più o in meno del dovuto avrebbe potuto soverchiare, completamente, le sorti del confronto.

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