11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 7 febbraio 2014

2184


Quando venni raggiunta dalle guardie al servizio della famiglia Calahab, le stesse che, per giorni, settimane, mi avevano trattenuta prigioniera, mi avevano sequestrata all’interno di quella stessa torre, premurandosi che la loro signora potesse, in tal modo, sfogare su di me ogni qual genere di perversa e sadica fantasia la sua mente potesse essere in grado di concepire; il mio primo pensiero, la mia prima idea, fu quella di approfittare della situazione venutasi in tal modo a creare, approfittare di quel contesto indubbiamente a me favorevole, per poter ottenere vendetta e, godere, in tal modo, del sangue, del dolore e della morte di coloro che, pur limitandosi semplicemente a compiere il proprio lavoro, il proprio operato, si erano dimostrati, ciò non di meno, più che indifferenti alla mia sofferenza, al mio dolore, alla mia pena, in questo, al mio sguardo, macchiandosi della medesima colpa propria di colei dalla quale dipendevano. Dopotutto, considerando lo sconquasso lì presente, nonché l’irruzione che soltanto per mio merito era stata appena scongiurata, così come dimostrato dai fluidi vitali propri dei malcapitati che avevo da poco finito di macellare e che, necessariamente, avevano finito per ricoprirmi quasi da capo a piedi, come di consueto al termine di qualunque battaglia condotta all’arma bianca; qualche cadavere in più non avrebbe fatto certamente la differenza e, anzi, cancellando ogni riprova del mio passaggio da lì, avrebbe potuto giustificare il perché l’attentato al grattacielo fosse concluso senza, fondamentalmente, nulla di fatto, alcun risultato concreto, in un contesto che, pertanto, avrebbe sostenuto l’ipotesi di un reciproco annientamento fra incursori e difensori, come, seppur poco probabile, non avrebbe mai avuto a doversi considerare neppure impossibile nella propria occorrenza.
Quanto ebbe, tuttavia, a frenare la mia mano, fu l’espressione che colsi sui loro volti una volta sopraggiunti al mio cospetto. Non l’immagine di chi sorpreso dal cogliere qualcuno là dove non avrebbe dovuto avere idea alcuna di poterlo attendere; e neppure, in verità, l’immagine di chi desideroso di ricercare rogna con questo qualcuno, me, nella fattispecie, laddove, in fondo, ne avrebbero potuto avere pieno diritto e titolo, nel non dovermi considerare nulla di diverso, a mia volta, da un invasore, da un’ospite sgradita, così come la non dimenticata azione che avevo intrapreso in compagnia di Lys’sh non avrebbe dovuto farmi dimenticare anch’io essere. Al contrario. Quanto allora lì presente sui loro volti, sui loro visi, avrebbe avuto a doversi riconscere qual l’evidenza della soddisfazione di chi, perfettamente cosciente di quanto fosse lì pocanzi occorso, era sopraggiunto giusto in tempo per confermare quanto, obiettivamente, tutto avesse avuto modo di concludersi così come sperato, così come pianificato. La stessa soddisfazione del fattore nel momento in cui, giunta la stagione delle messe, si fosse ritrovato innanzi a un raccolto persino superiore alle proprie aspettative, ai propri sogni più arditi, e, di ciò, di tale sorpresa, altro non fosse che indubbiamente gioioso.

« Straordinaria… » ebbe a complimentarsi, con apparente sincerità, il caporione del gruppo, contemplando la distruzione attorno a me, e con essa l’enorme squarcio apertosi sul fianco dell’edificio, e, ciò non di meno, non offrendo la benché minima dimostrazione di disappunto o preoccupazione per tutto quello, nell’appagamento che la mia presenza, al centro di tutto, sembrava comunque per lui, e al suo pari per ogni suo compagno, derivare « Semplicemente straordinaria. Davvero. »
« … grazie…?! » risposi, con tono che non poté che risultare necessariamente interrogativo, nell’incapacità a comprendere quanto potessi realmente avere ragione di esprimermi in tal maniera e, invece, quanto avrei avuto ragione di ricorrere a un ben diverso tono, a un’espressione magari meno aperta e cordiale nei loro riguardi, nel caso in cui, dietro a simile intervento, avesse avuto a doversi intendere un tono sarcastico, qual pur, obiettivamente, allora non sembrava essere.
« La prego di volerci seguire. » mi invitò subito dopo, chinando appena il capo in un cenno, addirittura, di rispetto nei miei riguardi, così come evidenziato dall’adozione della terza persona nei riguardi della quale, devo essere sincera, ancora oggi non posso vantare una qualche, effettiva, naturalezza « La signorina Calahab la sta attendendo nel suo studio per ringraziarLa personalmente… »

Nel considerare quanto spiacevoli avessero a doversi riconoscere le mie esperienze pregresse nei confronti dei modi propri di Milah Rica per affrontare gli affari, e nel temere che dietro la parola “studio” potesse avere a doversi riconoscere la stessa stanza entro gli stretti confini della quale, mio malgrado, mi ero ritrovata a essere costretta nei miei giorni di prigionia lì dentro, osservando in maniera ossessivamente ripetuta il mio stesso corpo essere fatto di volta in volta a pezzi soltanto per poi essere risanato, essere curato all’unico, terribile scopo di potersi assicurare una nuova occasione per ricominciare tutto da capo; credo abbia a doversi considerare comprensibile quanto, a quell’invito, non replicai in maniera immediata e spontanea con una qualche esclamazione d’intima esaltazione e, anzi, mi scoprii a stringere la mancina attorno all’impugnatura del pugnale con il quale, in quel momento, ero armata, al punto tale da vedere le mie nocche sbiancarsi per la tensione, per lo sforzo lì imposto in maniera quasi inconscia.
Ciò non di meno, per l’appunto, allora ero armata. Ero equipaggiata e armata di tutto punto. E il mio braccio destro, a differenza della mia precedente visita a quell’edificio, a quella dannata torre, non era stato reso del tutto inoffensivo, privato della propria carica energetica, completamente scaricato nel proprio nucleo all’idrargirio. E per quanto, pur, non avessi a dovermi riconoscere al massimo della mia forma fisica, mio malgrado tutt’altro che dimentica della caduta che mi aveva appena vista qual protagonista, che mi aveva pocanzi caratterizzato, oltre che della battaglia che a essa era conseguita, e della sistematica eliminazione di otto avversari ai quali, comunque, avrei avuto a dover riconoscere l’onore delle armi, nell’essersi quantomeno impegnati a restare fedeli a se stessi, coerenti con la propria scelta sino all’ultimo; in quel momento, in quella condizione, avrei avuto ancora a dovermi considerare pronta a scatenare una guerra tale che mai, ero certa, l’intera Loicare avrebbe potuto avere possibilità di immaginare, di presumere qual possibile, qual presumibile, qual immaginabile. Così che, se anche alla fine fossi morta, uccisa in tutto ciò, oppure, e peggio, vittima di quell’ancor sconosciuta maledizione che la stessa Milah aveva rivolto a mio discapito, quantomeno avrei avuto la soddisfazione di non presentarmi, innanzi alla mia dea, alla signora dei mari, qual una vittima, quanto e sempre qual una trionfatrice, qual una combattente, così come per tutta la vita mi aveva osservato essere e così come, anche allora, non avrei voluto rinunciare a dimostrarmi, fedele al mio ruolo, fedele alla mia natura, fedele a quello stesso istinto per l’avventura, e per la costante ricerca di autodeterminazione, in ubbidienza al quale, ancor bambina, avevo lasciato la casa dei miei genitori, l’affetto della mia famiglia, per abbracciare coscientemente e volontariamente, una vita che molti altri, al mio posto, avrebbero considerato probabilmente essere pari a una condanna.
Forte di tale ragione, consapevole delle mie possibilità e di quanto, se solo il mio anfitrione avesse ancora commesso un’imprudenza nei miei riguardi, essa sarebbe stata l’ultima che mai avrebbe potuto sperare di commettere, allentai appena la pressione imposta attorno all’impugnatura della mia lama e, traendo un profondo respiro, a concedere tempo all’adrenalina di defluire a debita distanza dalla mia testa, dalla mia mente, i pensieri della quale, necessariamente, stava allora ottenebrando; annuii appena in risposta ai miei interlocutori, a quelle guardie lì sopraggiunte, almeno in apparenza, non tanto per sequestrarmi, ancora una volta, quanto e semplicemente per scortarmi, quasi un corteo d’onore, sino alla destinazione che la padrona di casa aveva scelto qual sede di quel nostro nuovo incontro non programmato, di quel nostro nuovo momento di confronto non preventivato e, al quale, pur, non sembrava in apparenza desiderosa di sottrarsi…

« Andiamo… » commentai, a esplicitare maggiormente il senso di quel mio gesto, il significato di quella mia asserzione, nel caso in cui, eventualmente, da sola non fosse stata sufficiente a dimostrare il mio intento di collaborazione nei loro riguardi, nel confronto delle loro richieste… della loro unica richiesta, a ben vedere, ove comunque limitato avrebbe avuto a doversi riconoscere anche il loro intervento « In fondo non è cortese lasciar attendere i propri ospiti. » soggiunsi, abbozzando un lieve sorriso, atto, più che altro, a sdrammatizzare la tensione lì esistente soltanto nel mio cuore.

Nessun commento: