11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 30 novembre 2017

2385


Raggiunto un angolo dell’ampio edificio abbandonato dalle persone comuni e, in questo, occupato dal popolo degli emarginati, all’interno del quale si erano ritrovati, Midda Bontor si distaccò dai bambini solo nel momento in cui, trovata una nicchia entro la quale proteggerli, fu sufficientemente confidente con il fatto che, lì dentro, essi avrebbero potuto avere una certa possibilità di riparo. Il fatto, poi, che tale nicchia fosse dotata anche di una comoda porta di emergenza, una via d’uscita, allora sbarrata, ma attraverso la quale, all’occasione, i due bambini avrebbero potuto riprendere la loro folle corsa per la salvezza, rese quel punto di riparo, quel ricovero, qual sostanzialmente perfetto per le loro necessità, soprattutto nel momento in cui, dopo averli appoggiati a terra, ella ebbe a scagliare un devastante colpo, con il proprio pugno destro, in cromato metallo, contro le assi di legno preposte a interdire il passaggio attraverso quella via: legno che, pertanto, ebbe letteralmente a esplodere, in conseguenza della violenza di quell’unico colpo, sbriciolandosi in un’infinità di schegge e lasciando libero il passaggio per i pargoli, laddove essi ne avessero avuto l’esigenza.
Un gesto, il suo, che avrebbe potuto essere frainteso da parte dei piccoli, quasi un invito a quel distacco da lei, pocanzi, escluso dalle sue stesse parole, e che, con un nuovo, rapido intervento, ella volle chiarire, a non permettere alcun genere di incomprensione fra loro…

« Restate qui. » ordinò, pertanto, ai due bambini, nel riferirsi alla nicchia e, in essa, nel confinare, verbalmente, le loro opportunità di movimento, al di là della via loro aperta alle spalle « Io non mi allontanerò da voi. » lì rassicurò, nuovamente « Ma nel caso in cui doveste vedermi cadere a terra, come è accaduto qualche ora fa, dovrete ancora fuggire, iniziando a correre come avete dimostrato di saper fare benissimo… senza mai fermarvi. »
« Ma… » esitò Liagu, evidentemente non comprendendo come, quell’ultimo invito, potesse riuscire a trovare il proprio giusto ruolo nel confronto con la promessa da lei espressa, quell’impegno a non lasciarli, o, per lo meno, qual tale era apparso alla sua attenzione.
« Vi ho ritrovati una volta. Vi ritroverò sempre. » garantì la donna, scuotendo appena il capo a interrompere quell’intervento, non potendo permettere a quella loro chiacchierata di protrarsi eccessivamente, non laddove, alle sue spalle, nel era perfettamente consapevole, gli uomini in nero stavano tornando ad avvicinarsi, per riprendere il discorso dal quale ella aveva voluto allontanarsi « Sempre. »

Detto questo, in un gesto che per Diciannove-Cinquantadue e Diciannove-Cinquantotto avrebbe avuto a dover essere considerato totalmente sconosciuto, estraneo a qualunque possibilità di comprensione e interpretazione nelle proprie ragioni, e che, tuttavia, ebbe occasione di risvegliare nuovi ricordi, nuove felici memorie nelle menti di Tagae e Liagu, in riferimento a quel passato loro cancellato dalla mente durante la permanenza all’interno dell’edificio dalle pareti bianche; Midda Bontor si spinse, rapidamente, fugacemente, a schioccare due baci sulle loro fronti, quasi, in tal maniera, qualsiasi male avrebbe potuto essere scongiurato, qualsiasi pericolo avrebbe potuto essere esorcizzato o, forse, quasi a sigillo del proprio impegno nei riguardi di quei due bambini.
E prima ancora che, dalla reminiscenza di quella vita passata, di quell’epoca felice e pur dimenticata della propria esistenza, i due bambini potessero avere occasione di apprezzare quel gesto, di comprenderlo e, in ciò, di valorizzarlo per quanto avrebbe avuto a dover essere; la loro custode, la loro protettrice si era già allontanata, di pochi passi, da loro, per proiettarsi, con straordinaria foga, e devastante impeto, contro la minaccia che, ormai a troppi pochi piedi da quell’estemporaneo rifugio, avrebbe potuto porre in dubbio la loro libertà, la loro tanto faticosamente conquistata autodeterminazione. E in netto contrasto, in straordinaria antitesi, a quella materna delicatezza con la quale, un attimo prima, ella si era impegnata a prendersi cura di quei due pargoli, a coccolarli con quel rapido e pur sinceramente tenero bacio; Midda ebbe allora a esprimere una violenza a dir poco disumana, una furia priva d’eguali, in contrasto a tutti coloro che avrebbero potuto minacciare i suoi protetti, i suoi piccoli, sostituendo la delicatezza e la tenerezza pocanzi dimostrata, con il vigore di colpi scagliati con il solo scopo di uccidere, con la gelida determinazione di gesti mossi nell’unico intento di eliminare chiunque innanzi a sé.
In tal maniera, a pochi piedi dal rifugio di Tagae e Liagu, e sotto il loro sguardo al tempo stesso confuso e, tuttavia, meno spaventato di quello che avrebbe potuto essere, laddove entrambi affidatisi, allora, con assoluta sincerità, con totale dedizione a quella donna, in termini tali per cui nulla di quanto ella avrebbe potuto compiere, e compiere chiaramente in loro difesa, avrebbe potuto spaventarli; la donna guerriero ebbe a rivelare un altro aspetto di sé, un aspetto con il quale, in verità, gli uomini in nero avrebbero avuto a poter già vantare una certa, tragica confidenza, ma con il quale, altresì, i due bambini avevano avuto soltanto una moderata opportunità di confronto diverse ore prima, quand’ella, per la prima volta, era entrata nelle loro esistenze. Ma se quella mattina, in un concetto altresì relativo in quel mondo privo di notte come conseguenza della presenza di ben due soli nel cielo, ella aveva trattenuto la violenza dei propri attacchi, laddove esposta al pubblico, laddove non desiderosa di attrarre l’attenzione delle forze dell’ordine guadagnandosi qualche nuova condannata, limitandosi a contundere e a ferire, superficialmente, le proprie controparti; in quella sera, qual idealmente avrebbe potuto essere considerata, ella non avrebbe avuto più alcuna ragione utile a frenarsi, alcuna motivazione concreta per trattenersi, non, soprattutto, laddove una sua pur minima esitazione avrebbe potuto costare non soltanto la libertà dei due bambini ma, anche, le vite di tutti coloro che, in quel frangente, stavano già combattendo, e, proprio malgrado, morendo, in loro difesa, in loro soccorso.
E così, vicino allo sguardo di Tagae e Liagu, ma, fortunatamente, lontana da quelli di qualunque altro sistema di sorveglianza, a fronte del quale ella avrebbe potuto essere imputata e condannata per le proprie azioni; quanto ebbe lì a riemergere non fu, semplicemente, lo spirito di una donna guerriero, ma quella furia straordinaria e disumana in grazia alla quale, molti, troppi anni prima, in un altro mondo, in un’altra vita, ella si era guadagnata il titolo di Figlia di Marr’Mahew, dea della guerra nel pantheon locale del tranquillo popolo di un arcipelago, un’isola del quale era stata presa d’assalto da un crudele gruppo di spietati pirati nel momento in cui, trascinata semisvenuta dalle correnti a seguito di altre e più complesse vicende, ella era lì sopraggiunta, estemporaneamente dimentica persino del proprio stesso nome, ma non della capacità di combattere, non della capacità di uccidere, che, allora, si era espressa nel pieno del proprio terribile splendore vedendola affrontare, pressoché nuda, quei pirati, quelle dozzine di pirati, armata soltanto di una meravigliosa spada bastarda e di un martello da fabbro, e non lasciandone sopravvivere neppure uno. Quell’aspetto di lei, quella sua micidiale perizia nell’arte della guerra, nel suo mondo d’origine le era valsa decine di nomi, decine di titoli, nessuno dei quali, tuttavia, le era rimasto tanto legato qual quello, Figlia di Marr’Mahew, espressione sintetica, e ciò non di meno straordinariamente completa, di quanto ella avrebbe avuto a dover essere temuta nella propria furia, nella propria ira, nella propria eventuale partecipazione a un qualsivoglia genere di conflitto.
Pur, quindi, priva della propria consueta spada, di quella fedele compagna di viaggio con la quale nel corso dell’ultimo decennio della propria vita ella si era sempre accompagnata in tutte le proprie avventure, in tutte le proprie battaglie, contro uomini, mostri e dei; pur, in tal frangente, equipaggiata soltanto con corte lame e con, da non minimizzare nel proprio straordinario valore, quell’arto destro in metallo cromato, contraddistinto da un potere ineguagliabile; in quel momento, in quell’edificio abbandonato, innanzi a quell’esercito di uomini e donne, umani e chimere, vestiti di nero e oltremisura armati, la Figlia di Marr’Mahew ebbe occasione di tornare a dimostrare le solide e sanguinarie ragioni alla base del proprio stesso mito, quelle motivazioni per le quali, senza alcuna immeritata enfasi, senza alcuna infondata retorica, ella avrebbe avuto a dover essere riconosciuta, in ogni mondo, in ogni contesto, qual nulla di meno di una vera e propria leggenda vivente. Una leggenda che, lì, in quel luogo, in quel momento, avrebbe lasciato la propria firma impressa nel sangue di tutti coloro che, per sua mano, sarebbero caduti.

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